"Il futuro di questa cruciale aera del mondo non può essere un ritorno al passato".
Vi proponiamo di seguito una riflessione più politica di Umberto De Giovannangeli
Una guerra si può anche vincere ma se non si ha una strategia politica per il dopo, quella vittoria può trasformarsi in un disastro. A insegnarlo è la storia dell’Iraq. Abbattere il “mostro” non basta per dare stabilità e mantenere unito l’Iraq: valeva ieri per Saddam Hussein, vale oggi per l’autoproclamato “Califfo” dello Stato islamico, il tagliagole Abu Bakr al-Baghdadi. Senza memoria non c’è futuro. E la memoria del martoriato Iraq è una memoria impregnata di sangue. Vi sono momenti nei quali lo strumento militare va utilizzato per sconfiggere i seminatori di odio e di morte, i facitori di pulizie etniche, i criminali che non si arrestano neanche di fronte allo sterminio di donne e bambini, riempiendo con i loro corpi centinaia di fosse comuni. Ma lo strumento (militare) non può trasformarsi nel “Fine”.
Perché non esiste, in Iraq come in Siria, in Libia come nel martoriato e dimenticato Yemen, una scorciatoia militare alla stabilizzazione e alla pacificazione di un Paese e alla salvezza di un popolo. Nei suoi straordinari reportage per l’Unità , Adriano Sofri racconta l’eroismo dei peshmerga curdi, quelli che, ci auguriamo, saranno i liberatori di Mosul. E se ciò avverrà, un po’ di merito va anche all’Italia che quei combattenti ha contribuito ad addestrare, preferendo questo tipo d’impegno agli “spot militari” dei bombardamenti aerei nel “Siraq”.
Ma cosa accadrà una volta che dalla seconda città irachena per dimensioni e importanza, verranno cacciati i jihadisti del Daesh? È una domanda che deve essere posta oggi, e non dopo l’avvenuta vittoria militare. Perché senza una visione del domani, il “Califfo” potrà essere cancellato dalla faccia della terra, come lo è stato Osama bin Laden, ma le ragioni che spinsero i sunniti di Mosul a celebrarlo come “nuovo Saladino” faranno sì che altri “califfi” prenderanno il suo posto.
Lo Stato del terrore, il Daesh, si è fatto forte del desiderio di rivalsa, e di vendetta, che la minoranza sunnita irachena (ma un discorso analogo può valere per la Siria) ha nutrito nei confronti del Governo sciita insediatosi a Baghdad e che, soprattutto quando primo ministro era Nouri al-Maliki (diretta propaggine di Teheran), ha fatto dell’emarginazione forzata dei sunniti il proprio tratto distintivo. Ecco perché occorre evitare che la sconfitta militare del Daesh sia il preludio di una vendetta sciita (o curda) contro i sunniti. Così come va evitato che, in Iraq come in Siria o nella vicina Libia, si vada verso la creazione di tanti protettorati etnico-religiosi sulle macerie di Stati unitari.
Liberare Mosul è un passaggio cruciale nel contrasto al Daesh, e altrettanto, e forse di più, lo sarà la liberazione di Raqqa, la “capitale” siriana dell’Is. Se vuole davvero cambiare in meglio il suo volto, il Grande Medio Oriente non può nascere sulla registrazione dei rapporti di forza acquisiti sul campo di battaglia, né sull’affermarsi di disegni di grandezza neoimperiali (siano essi di matrice russa, turca, iraniana o saudita… ). Il futuro di questa cruciale aera del mondo non può essere un ritorno al passato. Il fallimento degli Stati nazione così come vennero definiti sulla cartina geografica dall’accordo Sykes-Picot (1916) – fonte della successiva spartizione di Levante e Mesopotamia fra Gran Bretagna e Francia – non deve aprire la strada a staterelli neoconfessionali: se così fosse, prepariamoci ad altre guerre, ad altre devastazioni.
Per questo in campo deve tornare la politica e un nuovo multilateralismo che metta attorno allo stesso tavolo attori globali e regionali, senza alcuna esclusione pregiudiziale. Quella a cui tendere, per la quale lavorare, è una “Yalta mediorientale” che vada oltre “Sykes-Picot” ridefinendo, in termini federali, Stati unitari. Un Medio Oriente inclusivo, nel quale a dettar legge non siano più Generali e Califfi.