Il pianto di Paolo Borsellino
La nostra storia recente si caratterizza per l’assoluto deficit di verità nelle indagini sui più eclatanti e dolorosi lutti nazionali.
Ieri sono stati inchiodati alle loro responsabilità alcuni dei protagonisti dell’enorme depistaggio costruito per sabotare le inchieste sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque poliziotti che lo scortavano.
La fine adesso è nota: «Sia nel luglio del 1992, sia nell'anno 1993, la strategia di Cosa nostra è stata quella di trattare con lo Stato attraverso l'esecuzione di plurime stragi che hanno trasformato la trattativa in un vero e proprio ricatto alle istituzioni».
La fretta di eliminare Borsellino derivò dal fatto che il magistrato, procuratore aggiunto di Palermo, era venuto a sapere dei contatti tra i carabinieri del Ros, guidati dall'allora colonnello Mario Mori, e l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Contatti diretti alla cattura dei latitanti, secondo gli investigatori dell'Arma, che però Cosa nostra percepì come occasione per imporre patti e condizioni.
Borsellino scoprì i contatti tra la mafia
e altri rappresentanti dello Stato,
schierati ufficialmente al suo fianco.
Due magistrati, Alessandra Camassa e Massimo Russo, un giorno di fine giugno lo videro piangere. «Essendo un uomo all'antica non l'aveva mai fatto. Ricordo che Paolo, anche questo era insolito, si distese sul divano, e mentre gli sgorgavano delle lacrime dagli occhi disse: non posso pensare che un amico mi abbia tradito».
Non disse chi fosse quell'amico, né accennò a trattative. Ma la vedova del giudice ha raccontato che il marito, legato al generale Subranni, le confidò di essere sconvolto dopo aver saputo di sue presunte collusioni con la mafia. E le aveva testualmente riferito che «c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato».
Qui un approfondimento, dal Corriere della Sera.
Speriamo che presto possa farsi chiarezza
su questa presunta trattativa tra Stato e mafia,
e chi possano condannare i traditori dello Stato.