Noi e l’utopia della pace

Articolo di Gianni Cuperlo, pubblicato su La Stampa 

Su questo giornale Massimo Cacciari ha posto la domanda che da anni la politica ha rimosso dall’agenda: è stato forse un intervallo la non-guerra tra i grandi spazi imperiali dopo le tragedie della prima metà del`900? Null’altro che «una pausa per meglio prendere la rincorsa in vista della definita “sistemazione” del pianeta?». Lo ha fatto richiamando la sconfitta delle istituzioni che nell’avallo di monumentali filosofi del diritto avevano imboccato il sentiero di una regolazione giuridica del conflitto. Si riferiva ai fantasmi dell’Onu e all’assetto di autorità sovranazionali (Corti penali e Alte corti di giustizia) vittime della propria impotenza. Per questa via la Guerra è tornata a soggiogare una razionalità divenuta ostile al realismo di un potere che i singoli Stati non detengono più mentre a profilarsi su scala globale sono oligarchie inedite. Con due conseguenze. Un tempo storico d’incertezze: «non si può più immaginare che quanto stai pensando si possa realizzare» confidava ancora Cacciari dialogando mesi fa con Antonio Gnoli. E la sottovalutazione – questa sì, delittuosa – di quanto sia illogico lo sradicamento “sul campo” di Imperi sopravvissuti a secoli di Storia e Memoria. Se pensiamo alle ambizioni di Putin sull’Ucraina o alla riconquista del Mediterraneo da parte del “sultanato” turco, comprendiamo perché dopo la Guerra Fredda, quando l’Europa pareva tramandata a confini inviolabili, siamo tornati alla narrazione di diritti storici come traguardi da ripristinare. Può succedere così che il Cremlino resusciti il mito di Pietro il Grande o Caterina II. E se Obama a suo tempo aveva battezzato la Russia «una potenza regionale», per Putin l’offesa non era a Lenin ma ai Romanov. 

È l’uso presente di un passato che non è passato mai e dall’Ucraina ai Balcani c’è un’Europa alle prese con la lotta per l’egemonia su territori scomposti dopo la Grande Guerra. Non dopo Maastricht, ma all’indomani del disgregarsi degli Imperi centrali. Libia, Siria, alcuni tratti della penisola arabica, hanno vissuto conflitti eredità della fine del dominio ottomano. Dinanzi a tutto questo la domanda è come sia potuto accadere che il pensiero politico occidentale sia incorso dopo l’89 nell’abbaglio più grave, l’aver scambiato la fine della pace con la fine della guerra. Avere creduto, o finto di credere, che il collasso dell’Impero russo, zarista e poi sovietico, avrebbe generato un’egemonia senza più argini. 

«L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo è credere sia sufficiente per la politica entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero pensando di imporre le sue leggi o la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati, il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è respingerli come nemici», parecchio tempo fa a dirlo fu Robespierre in polemica con l’illusione girondina di esportare la libertà e la rivoluzione. Non prenderei l’uomo a modello, ma almeno racconta perché il tema interroga il potere da un paio di secoli. In realtà da molto più tempo se pensiamo al consiglio di Augusto morente a Tiberio: «Non estendere i confini dell’impero». Invece, una trentina d’anni fa l’Occidente quei confini ha dilatati nel segno di una teoria economica tradotta in dottrina morale ritenendo a quel punto le stesse istituzioni dell’ordine politico e finanziario del secondo ‘900 zavorre da cui liberarsi. Un errore drammatico. Una fuga dalla Storia. E quando, come per i “sonnambuli” del 1913, è giunto lo schiaffo del risveglio, la realtà presentato il conto. Con la guerra a precipitare di nuovo nel cuore dell’Europa, e l’Europa a dividersi tra la giusta difesa del popolo ucraino e una lettura apocalittica dell’Orso russo, da fermare una volta ancora “sul terreno” perché “dopo Kiev ci sarebbero Moldavia, Finlandia, Transnistria, e poi la Senna e chissà”. C’è chi ha scomodato Monaco’38, l’accordo sordido secondo la definizione di Avishai Margalit. E immorale quell’accordo fu, ma più che il merito a renderlo tale fu l’interlocutore, l’uomo che avrebbe condotto il continente alla distruzione. 

Il punto è cosa accade quando le culture della mediazione finiscono asservite a un principio di potenza privo degli anticorpi che il “Male” del vecchio secolo aveva generato. Succede ciò che abbiamo vissuto e continuiamo a vivere: l’esonero dal dovere di indicare un punto di caduta per conflitti divenuti irrisolvibili perché ritenuti tali. Ma quale capitolazione della politica vive qui! Lo si comprende meglio se ci si chiede perché dal 24 febbraio di due anni fa la Casa Bianca, e l’Europa al seguito, non abbiano mai sciolto il nodo di quale sarebbe l’approdo per una pace giusta. La condizione territoriale del 23 febbraio di quell’anno? O il ritorno al 2014 prima dell’annessione russa della Crimea? Nel frattempo sono morte seicentomila persone e un Paese è stato decimato nel suo popolo lasciando un panorama di macerie. E allora, quanto può reggere un mondo senza un ordine a disciplinarne i conflitti in essere respingendo, anche nella teoria politica, la Guerra nell’accezione di un primato delle armi? Perché se quel primato s’impone, nessuna Autorità potrà impedire la furia di sistemi d’offesa e distruzione sempre più perfezionati, con l’incubo di un incidente, o di uno Stranamore ricomparire in una scia di rovine. Per tutto questo fa impressione scorgere termini della sapienza novecentesca – disarmo e pace in vetta al resto, concetti legati alla sfera della politica, del pensiero filosofico, del diritto, della fede religiosa – scomunicati da un sentimento, e un lessico di Stati e governi, che ne cancellano origine e potenzialità dentro la Storia in atto. A chiusa del ragionamento, Cacciari un “metodo” lo indica. La via della competizione nello sviluppo, nella Tecnica e nella Scienza, in un’innovazione che metta a gara la forza di sistemi culturali e giuridici. Sarebbe la ricerca di un’egemonia da plasmare su basi alternative a una “vittoria” origine della possibile auto-distruzione. La Storia di cicli simili ne ha conosciuti con una potenza che si affermava, poi declinava lasciando vuoto uno spazio occupato da una potenza diversa. Fu così nel passaggio dall’Olanda del ‘600 al primato britannico su mari e oceani. E ancora, nel transito da quello all’Impero americano costretto oggi a ritrarsi. 

In questo interregno di assenza, e di caos, la politica può limitarsi a scortare l’esistente in attesa che una nuova potenza s’imponga. Oppure, interrogarsi su quali principi, e istituzioni e pratiche di diplomazia, dialogo interreligioso e filosofico, creatività, possono mettere in sicurezza il mondo e la stessa credibilità del Diritto in grado di regolarlo. Sono due mete diverse. Ma tra sistemare carrarmati sul tabellone di un Risiko terribilmente tragico e assumersi la responsabilità di un altro ordine possibile, vive lo spazio di un nuovo pensiero democratico che per prima la sinistra deve attrezzare a partire dal ruolo che il Pd può scegliere di avere oggi in Europa. D’altra parte compito nostro, di chi la Politica si ostina a preservare, è anche restituire l’utopia storica di un disarmo e una pacificazione a fronte di carneficine in atto rispetto alle quali gli auspici moralistici paiono spergiuri. Qui l’alleanza tra Pensiero, Tecnica e Politica avrebbe un campo da esplorare e traguardi da raggiungere. Provarci è un dovere. Dovessimo rinunciare a farlo, sarà su quello che saremo giudicati.

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