Uniti, dalla parte del popolo ucraino

Un pezzo non irrilevante di quel mondo che col concetto i sinistra si identifica ritiene l’invasione dell’ucraina un evento che affonda le radici negli errori che l’occidente e la NATO hanno compiuto dopo la fine dell’unione sovietica (1991), da questa premessa singole voci traggono due conclusioni: la prima è nell’invito al governo ucraino ad arrendersi, l’altra conclusione condanna il sostegno alla resistenza ucraina anche tramite un supporto militare (…) 

Ora chiunque si alzi e dica che la guerra è un male in sé per la scia di morti e distruzione con vittime per lo più civili enuncia una pura verità. Il nodo, però, si deve tagliare quando la cronaca ci pone dinanzi a un Paese sovrano che invade un altro Stato sovrano allo scopo di destituirne il governo ridisegnando i confini politici dell’area. Se quel popolo invoca un aiuto anche militare per non soccombere e spingere l’aggressore a recedere dalla via imboccata è legittimo garantire quell’aiuto? La risposta di molti, io tra i tanti, è sì, quell’aiuto va garantito (…) 

Il punto è che nulla giustifica l’invasione dell’Ucraina, l’uccisione di donne, bambini, ed è su questo che siamo chiamati a misurare il sostegno alla resistenza di un territorio martoriato (…) 

E arriviamo al nodo. Esiste la “sinistra autoritaria” denunciata da Luigi Manconi, quella incapace di riconoscere la sofferenza delle persone semplici anche quando il loro dolore si manifesta in modo più evidente? Per quanto costi riconoscerlo temo che quella pulsione raccolga un consenso più largo di quanto crediamo.
Con chi dovrebbe schierarsi una sinistra che al centro ponga la difesa dei diritti umani e un principio di autodeterminazione? Ignorare il tema sarebbe un errore perché oltre al principio la questione implica un chiarimento sull’identità della sinistra. 

Lo scrivo perché solo spiegando come la pensiamo sulle frontiere dell’etica e del diritto internazionale potremo definire il chi siamo in rapporto alle strategie da seguire. Per capirci, sono ostile a una logica di riarmo come prospettiva del nostro Paese e osservo allarmato il riemergere di uno spirito bellicista dietro al quale si muovono interessi dell’industria militare. Altra cosa è affrontare il capitolo di una sicurezza comune in un continente che non può più affidare il suo destino alla superpotenza americana. Se il 24 febbraio segna uno spartiacque dovrà esserlo anche nel colmare il vuoto che l’Europa ha lasciato sino dagli anni cinquanta quando a porre il veto su un embrione di difesa congiunta furono i francesi (…) 

Affrontare quel capitolo, però, non vuol dire che ogni paese riempie i propri arsenali. Vuol dire razionalizzare quella spesa a livello comune e al contempo fare dello spazio geografico di cui siamo parte, e che la Russia comprende, un’area di cooperazione, pace, tutela di ogni minoranza nazionale respingendo una regressione allo spirito della prima metà del Novecento. Un mondo di pace, se la formula conserva un senso, passa da un nuovo ordine, nel concreto vuol dire che gli “imperi” sopravvissuti (Usa, Cina, Russia) non possono che sentirsi reciprocamente coinvolti dall’Europa nel costruire relazioni, regole, istituzioni in grado di sovraintendere a quell’ordine tuttora assente e che espone ciascuno, noi più di altri, a tragedie come quella in corso. Il problema riguarda noi e sarà bene non ignorarlo perché la sfida vive qui. Per affrontarla serve coerenza nel riconoscere le falle di prima senza abdicare alle opportunità del poi. 

Certo, ragionare su questo mentre la guerra infuria può sembrare un fuor d’opera. Ma se pensiamo alle conseguenze il non farlo potrebbe rivelarsi una scelta persino peggiore.

Sintesi dell’intervento di Gianni Cuperlo su Domani

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