A cena col “paese reale”: appunti per disinnescare il partito della chiusura


Sono convinto che al vecchio asse destra-sinistra se ne sia ormai aggiunto un altro altrettanto nitido che contrappone chiusura ad apertura. Giulio Saturnini per la Community de l'Unità.it


Ci sono luoghi che hanno il potere evocare visioni e di rivelare angoli di realtà che prima erano sottratti alla visuale. A me è avvenuto in una pizzeria – pardon: ristopizzagrill – di Torino, lo scorso sabato sera. Un posto farcito di maxischermi con la partita e di gonfiabili dove far sudare i bambini, di camerieri coi capelli alla El Shaarawy e di pizze patatine-fritte-e-maionese. Un rifugio a buon mercato per far sfogare i marmocchi e mangiare un boccone coi vecchi amici del liceo e le rispettive famiglie. E chi se ne frega se il cibo fa schifo e il vino della casa sembra Red Bull sgasata, qui non è Masterchef: arrivare a fine mese è sempre dura e non basta imbroccare quel gratta e vinci ogni tanto per permettersi grandi lussi.

Dopo un’infruttuosa ricerca di un ristorante in grado di ospitarci tutti, è lì che noi fighetti appena usciti dal Lingotto pieni di entusiasmo e di speranze abbiamo visto in faccia il “paese reale” e la distanza siderale che ci separa da esso. Per un lungo secondo ci siamo sentiti tutti Piero Fassino, e abbiamo visto come in un brutto sogno premonitore il trionfo del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche.

Svegliati dall’incubo e usciti dal locale, la domanda da farsi è: cosa possiamo fare evitarlo?

Prima di tutto, parlare con quelle persone. Col cameriere con la cresta che lavora a voucher e con lo stesso proprietario del ristorante, che non sarà un drago dell’imprenditoria ma che ha i margini ridotti al minimo dalla pressione fiscale. Col commesso incazzato perché vede i suoi amici d’infanzia condurre una vita più appagante, almeno a giudicare da ciò che postano su Facebook. Con la sua fidanzata, disoccupata, che con tanti sacrifici ha preso la triennale in Scienze della comunicazione e ora non vuole accontentarsi di un part-time alla cooperativa di pulizie, e con tutti gli altri cittadini che non riescono a tenere il passo di un mondo sta correndo un po’ troppo veloce. Come possiamo spiegare loro che la loro sconfitta è appunto solo una sconfitta, e che senza la globalizzazione avrebbero – avremmo – già perso la guerra da un pezzo? Dobbiamo tornare a parlare con loro e con tutti quei cittadini che si sono abituati ad associare il PD (quando va bene) alle faide tra dirigenti e alle infinite discussioni tra correnti. Mi correggo: dobbiamo iniziare – non tornare – a parlare con loro, perché quel mondo ci ha sempre serenamente evitato come la peste, tranne forse alle europee del 2014.

Io sono convinto che al vecchio asse destra-sinistra se ne sia ormai aggiunto un altro altrettanto nitido che contrappone chiusura ad apertura. Ebbene, se vogliamo risultare credibili nella nostra pretesa di incarnare il partito dell’apertura dobbiamo essere aperti non solo al nostro interno ma anche e soprattutto verso la società. Non dobbiamo aver paura di confrontarci con chi ci sembra diverso da noi. Sta proprio qui il nostro vantaggio nei confronti di chi invece, sui livelli più disparati, si limita a voler erigere muri. Dobbiamo trovare le chiavi giuste per farci ascoltare e dimostrarci quella grande e aperta comunità che aspiriamo a rappresentare. Lo vediamo già a partire dai piccoli comuni: i sindaci e gli amministratori più apprezzati non sono necessariamente quelli più competenti o quelli più visionari, sono spesso quelli che trovano il tempo per accoglierti nel proprio ufficio e che dimostrano di essere sempre lì per te.

Dall’ascolto e dal dialogo nasce la comprensione dell’altro, anche quella del cittadino di fronte alla complessità dei problemi che vengono posti quotidianamente agli amministratori locali, regionali e nazionali. Da qui nasce la comprensione delle logiche della politica, che sono ben diverse dalle rappresentazioni semplificate proposte da Grillo, da Salvini e dagli altri demagoghi del partito della chiusura. È solo approfondendo e spiegando la complessità del mondo globale (e le sue ricadute sulla politica locale) che possiamo battere i populisti, provando a erodere le basi del rancore sociale su cui essi prosperano. Dobbiamo ascoltare e argomentare chiaramente le ragioni per cui l’apertura – accompagnata ad un quadro regolatorio snello e chiaro – è cosa buona e giusta, che si parli di immigrazione o di finanza internazionale, delle dinamiche del proprio Comune o di quelle tra gli Stati dell’Unione europea. Del resto se non ci apriamo ai cittadini che ci sembrano diversi da noi, a partire dai cosiddetti “sconfitti della globalizzazione”, come possiamo essere credibili quando ci proponiamo come paladini dell’apertura, della globalizzazione e dell’accoglienza?

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