Martina: Cinque sfide per Renzi e il nuovo Pd
Il Partito Democratico vive il suo passaggio più difficile, ma questa storia non è affatto conclusa e non è stata né un miraggio né un’utopia. Perché in tanti abbiamo creduto e continuiamo a credere in questa sfida. Oggi, nonostante i limiti e gli errori che vanno riconosciuti, c’è un’intera generazione che non intende accettare chi spinge per un ritorno alle antiche case madri. Quello di cui abbiamo bisogno è esattamente il contrario: portare a compimento ciò che è rimasto incompiuto. Costruire finalmente una nuova cultura politica, una nuova identità. Un soggetto autenticamente popolare, alternativo al populismo.
Di certo non c’è sinistra senza il Pd in questo paese. Abbiamo dato vita al partito nuovo per uscire dal novecento e non vogliamo riavvolgere il nastro della storia. Dobbiamo dare più forza alle ragioni che mossero quella scelta perché ne sentiamo ancora la necessità storica. La proposta ideale e programmatica del Lingotto nel 2007 segnò la nuova stagione, e così come allora, anche oggi abbiamo bisogno di una elaborazione all’altezza del tempo che viviamo. Per rendere compiuto ciò che è incompiuto da troppo tempo. Penso che la scommessa del Partito Democratico sia dall’origine quella di far lavorare e crescere insieme ciò che è diverso. Costruire l’unità nella pluralità. Non vivere la diversità a compartimenti stagni ma mescolare, arricchire, aprire. Perché diversi ma uniti è possibile. Anzi. Diversi ma uniti è necessario.
Credo utile porre cinque temi essenziali innanzitutto a Matteo Renzi per il nuovo PD. Temi che devono trovare risposta nel congresso se vogliamo che sia utile e vero. Non ancora proposte e programmi, ma questioni prioritarie dentro le quali avanzare azioni e scelte.
Partito. Occorre una svolta radicale nelle forme e nella sostanza. I problemi che abbiamo ereditato sono figli della fragilità dei primi anni di vita del PD e non sono stati affrontati. Ora serve farlo. Senza rifugiarsi in nessuna rassicurante formula del passato. Nessuno può davvero immaginare che si possa tornare al partito di massa del secolo scorso. Ma nemmeno si può credere che si possa rimanere, come siamo, in mezzo a un guado, spesso una sommatoria di filiere personali distinte e distanti. Chi viene investito dell’onere della leadership deve guidare, ma non da solo. E chi è minoranza deve far vivere la pluralità senza scadere nella delegittimazione di chi guida.
La forma è sostanza, soprattutto in politica. Serve allora un lavoro profondo per fare del PD un luogo stabile di elaborazione e confronto, di selezione delle classi dirigenti per merito e non per fedeltà, di partecipazione costante. Tutto ciò a maggior ragione dopo la bocciatura referendaria. La riforma segnava la possibile evoluzione del sistema verso una migliore amalgama tra democrazia rappresentante e democrazia decidente. La sconfitta, anche con gli errori che abbiamo commesso, rischia di riportarci verso dinamiche proporzionalistiche che ne accentueranno la difficile governabilità. Va evitato questo ritorno all’antico. Un sistema di impianto maggioritario, capace di favorire aggregazioni per il governo secondo la logica dell’alternanza, rappresenta oggi l’antidoto più forte.
Società. Nel tempo della società liquida la mediazione è un valore. Le forme della rappresentanza sociale ci riguardano perché sono essenziali per affrontare il nodo del rapporto tra cittadini e istituzioni. È stato giusto in questi anni aver sfidato forme diffuse di conservatorismo anche a sinistra. Ma non basta. Serve costruire una nuova idea della mediazione, della composizione degli interessi, avendo la consapevolezza che le forme della rappresentanza, per come le abbiamo intese, non funzionano più perché ognuno è contemporaneamente portatore di bisogni spesso contrapposti a seconda della situazione, del ruolo e del momento. Fare comunità è il valore aggiunto. Così deve trovare posto anche una diversa attenzione alla dimensione del territorio. Perché tra vecchi localismi e nuovi centralismi serve un equilibrio più avanzato per uno Stato più efficiente e territori più virtuosi. Questo credo sia tanto più urgente al sud, dove la sfida rimane più complessa ma dove il potenziale è tanto più straordinario. È una questione che attiene anche al modello di sviluppo e di crescita. E se non lo fanno i democratici questo lavoro, non lo farà nessuno.
Tutto questo comporta anche tornare a riflettere sul rapporto stesso con il potere. Che non deve essere, al centro come in periferia, la mera conquista di posizioni e di postazioni ma la forza e la capacità di modificare lo stato delle cose, per trasformarle e migliorarle. Uscire dalla spirale “promessa-delega-illusione-delusione-rabbia” per entrare nella piena dimensione della condivisione delle responsabilità, della costruzione comune delle risposte. Non quindi “come risolvo io tutti i tuoi problemi” ma “come possiamo farlo insieme”.
Uguaglianza. Abbiamo l’urgenza di dare risposte nuove per affermare il principio guida del campo progressista e democratico. La sinistra nasce per creare uguaglianza. Ripartiamo da lì. Non possiamo sottrarci a un’analisi che individui soluzioni forti alle domande di equità e giustizia che emergono. Come affermiamo il principio di uguaglianza in Italia e in Europa pressati dai populismi e sotto attacco dei fondamentalismi? Penso sia la domanda cruciale a cui rispondere. A partire dal tema della protezione nel tempo della globalizzazione. Senza diventare subalterni all’illusione protezionista e sovranista come lo siamo stati in passato a quella liberista. Il lavoro rimane il cuore della questione, tanto più con la rivoluzione digitale in atto che cambierà sempre di più forma e sostanza dei lavori, esponendo le persone a fragilità e precarietà a cui si deve rispondere con una nuova stagione di diritti e tutele.
Per questo non è più rinviabile la definizione di un patto di cittadinanza per offrire strumenti universalistici adeguati a questo cambio di fase. Iniziamo a scriverlo. In Europa diverse forze socialiste, democratiche e riformiste stanno provando a superare le fragili impostazioni figlie della stagione alle nostre spalle. Questi sforzi ci riguardano. Hanno a che vedere anche con il ruolo dello Stato nel sostenere gli investimenti e nel presidiare temi irrinunciabili come le politiche della salute di ogni cittadino.
Nuove Generazioni. Se non siamo riusciti ancora a conquistare con la nostra proposta larghe fasce di giovani non abbiamo solo un problema di voti. Senza di loro nessun programma di cambiamento può realmente entrare nel sangue del Paese. E un’Italia sempre più vecchia e’ destinata ad essere anche più povera. La fragilità dei destini di vita di troppe ragazze e ragazzi ci deve riguardare, turbare, interrogare. Mina la loro libertà e autonomia. È evidente come alcune nostre riforme, dal lavoro alla scuola, non hanno determinato ancora, come avremmo voluto, il segno di un cambiamento sufficiente. Occorre fare di più. Il passaggio dalla scuola al lavoro rimane il problema più grande. Gli strumenti d’incontro tra domanda e offerta di lavoro sono ancora troppo fragili così come la valorizzazione e la formazione del capitale umano nel sistema produttivo. Queste difficoltà portano a pesanti conseguenze: bassa natalità, dipendenza prolungata dalla famiglia di origine, esplosione dei cosiddetti Neet. Coniugare riformismo delle opportunità e dei diritti è il nostro compito innanzitutto a partire da chi ha meno di quarant’anni. La crisi ha modificato la frontiera tra garantiti e non garantiti, ma quella faglia esiste ancora e sta allargando proprio il divario fra le generazioni.
Europa. La crisi d’identità del progetto europeo corrisponde alla mancanza di visione di cui il fronte progressista ha sofferto dai primi anni duemila. Non avere rafforzato l’integrazione e le istituzioni comunitarie, quando ben tredici Stati membri su quindici erano guidati dal centrosinistra, è stato l’errore più grave. Aver permesso la nascita dell’Euro senza un vero e proprio governo dell’economia e aver proceduto con l’allargamento senza riformare le istituzioni, sono state le cause dell’incapacità di affrontare le sfide che la globalizzazione ci ha posto. Adesso occorre togliere l’Europa dalla soffitta in cui è stata chiusa dagli egoismi nazionali. Dobbiamo rivendicare quanto fatto in questi anni per farle cambiare rotta, spesso nell’indifferenza di tanti: dall’immigrazione all’austerità, interi capitoli comunitari vanno riscritti. A partire dalla messa in discussione del Fiscal compact, per arrivare realmente alle politiche di difesa comune e alle azioni di sostegno alla crescita con gli investimenti definitivamente fuori dai vincoli. Vogliamo che l’Europa torni ad essere attore globale fuori da vecchie e nuove chiusure e fuori dalle illusioni delle piccole patrie. La nostra grande sfida è trasformare il Mediterraneo, segnato ora da conflitti e migranti in cerca di salvezza, nel luogo d’incontro tra Europa ed Africa. Per tutto questo dobbiamo tornare a fare vivere l’impegno che lanciammo con il messaggio “per ogni euro in sicurezza, un euro in cultura”. Esso indica ancora, più di tante discussioni, la sfida valoriale essenziale da vincere.
Affrontare questi temi è indispensabile per il rilancio del Pd. Metterli al centro della discussione congressuale, saper raccogliere il contributo di migliaia di cittadini e dialogare anche nel campo largo delle energie del centrosinistra, farà la differenza.
Sarà questa la vera sfida, non solo una contesa tra persone, ma soprattutto una battaglia delle idee. Varrà la pena cercare di andare in profondità. Non sfidare qualcuno, ma saper sfidare noi stessi e saperci sorprendere. Per battere la rassegnazione e restituire una speranza.