Aleppo non è Srebrenica
Le immagini e le notizie che ci arrivano dalla città ormai espugnata sono disperanti e vividissime. L’unica certezza è che non sarà possibile dimenticare Aleppo e che ci vergogneremo di quanto non stiamo facendo. Aleppo non è Srebrenica, e non è neanche il Rwanda del 1994. Le immagini e le notizie che ci arrivano dalla città ormai espugnata sono disperanti e vividissime.
L’unica certezza è che non sarà possibile dimenticare Aleppo e che ci vergogneremo di quanto non stiamo facendo, proprio come accadde tra l’aprile e il luglio del 1994 di fronte al genocidio rwandese o al massacro di tutti i maschi musulmani della città bosniaca, sotto gli occhi delle truppe olandesi delle Nazioni Unite, avvenuto l’11 luglio 1995. Tuttavia, Aleppo non è Srebrenica. E non è Kigali. È cambiata, infatti, la natura della guerra, e i conflitti di questa nostra era di disordine globale rendono ancora più difficile discernere chi siano i buoni e quali i cattivi.
A partire dal 19 luglio 2012, l’assedio di Aleppo è proseguito per più di quattro anni. Aleppo è infatti una delle città siriane che dall’inizio della timidissima primavera siriana, trasformatasi velocemente e con crudeltà nella guerra civile siriana, si sono ribellate al regime di Assad. La sua conquista ha assunto quindi da subito una valenza simbolica oltre che strategica, sia per i gruppi anti Assad, che per il regime siriano e i suoi alleati.
E se l’attaccamento al potere da parte di Bashar Assad ha trasformato in brevissimo tempo la guerra civile siriana in una guerra totale, nei luoghi in cui anche simbolicamente si è combattuta più intensamente essa è diventata subito un groviglio inestricabile di crudeltà, ferocia, ingiustizie e torti in competizione tra di loro. Lo scontro ha messo le armi in braccio a tutti. Come in tutti gli assedi prolungati, da Famagosta a Stalingrado, persino le donne e i bambini, per contribuire alla propria sopravvivenza, hanno fiancheggiato le milizie, diventando guerriglieri, sabotatori e parti attive di un conflitto dove le figure delle vittime si fondevano spesso con quelle dei carnefici.
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