Dove va l'Europa
Marco
Zatterin, corrispondente da Bruxelles per il quotidiano La Stampa ci racconta come,
a causa di politiche europee deboli e poco lungimiranti, politiche locali che
nazionalizzano le vittorie collettive e comunitarizzano le sconfitte, il
parlamento europeo alle prossime elezioni vedrà l'ingresso di numerose
formazioni euroscettiche.
Le
ricette per invertire la tendenza? Secondo Gianni Pittela, vicepresidente di
casa Pd, sono due: «Varo di misure concrete per lavoro/crescita e lancio della
candidature per l’elezione diretta del presidente della Commissione». Solo così
«si può scongiurare il pericolo d’una crescita smisurata dei populismi».
A un
anno dalle elezioni lavorano a
un’alleanza delle destre E Bruxelles prova a correre ai ripari. Graham
Watson lo confessa con franchezza scozzese, «sappiamo tutti che nel prossimo
Europarlamento ci sarà tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o
populisti». Più che probabile. Si vota fra un anno nei ventisette paesi
dell’Unione, a maggio 2014, e il presidente del partito liberaldemocratico
continentale ammette qualche cruccio, anche personale: «Mi ricandido e sarà la
sfida più dura della mia vita».
Nel
Regno Unito gli antieuropei dell’Ukip sono al 25% e i libdem del vicepremier
Clegg se la passano mica bene. «Bisogna cambiare messaggio di qui al voto -
insiste Watson -. E dopo le elezioni, bisognerà cambiare ancora».
L’Europa
del Nobel per la Pace è il bersaglio seduto della protesta contro la crisi e
del rifiuto del rigore. Sebbene Beppe Grillo abbia sempre adottato un
linguaggio doubleface sulle cose comunitarie, l’elettorato lo ha scelto per
dire «no» all’Ue e a Frau Merkel, ritenendole la stessa cosa. Anche l’estrema
sinistra greca (Syriza) ha usato l’Unione come calamita del malcontento e così
i Veri Finlandesi (20% nel 2010), gli antirom ungheresi Jobbik (17%) e il
partito della libertò dell’antislamico olandese Wilders che ha il 10-20% delle
schede elettorali.
«Vogliamo
il terremoto», ha tuonato Nigel Farage, eurodeputato Ukip, abile retore
indipendentista con la faccia da schiaffi. A Strasburgo, i partiti dalla
tradizione europeista scopriranno presto se è peggio dello tsunami che ha
colpito l’Italia: non ne saranno immuni, gli equilibri saranno sfidati. Ci
vuole più cuore, argomenta Cecilia Malmostrom, commissaria Ue agli affari
interni: «Dobbiamo avere il coraggio di difendere ciò che abbiamo costruito
sinora, perché c’è chi è pronto a spazzarlo via».
Da anni
il Parlamento Ue è condotto, spesso senza passione, dalle principali famiglie
della politica, Popolari e Socialisti. Hanno rispettivamente 272 e 191 seggi,
oltre il 60% dei 757 scranni dell’assemblea. Grazie a maggioranze variabili
costruite coi LibDem (che sono 85), i conservatori (Ecr, 54) e i verdi (58)
indirizzano le decisioni di Strasburgo, istituzione che sta prendendo
consapevolezza dei poteri di seconda camera conferitele dai governi col
Trattato di Lisbona. Diventa più forte, amplia la base democratica, ma in pochi
se ne accorgono.
Il
cruccio delle grandi famiglie politiche, a parte l’ondivago Ecr, sono i 32 soci
del club Efd (Libertà e democrazia), cavallo di Troia con cui gli scettici
tentano di distruggere l’Unione dall’interno. Trasporta l’Ukip, i leghisti, i
duri di Wilders, i fiamminghi indipendentisti (e Madgi Allam). Fra un anno, se
continua così, la compagine potrebbe essere quintuplicata, arrivare a 100, 150
o anche più (senza Allam).
Gli schieramenti saranno frammentati. Comunque la si
gira, avremo meno Ppe e Pse, più nuovi partiti. «Rischia d’essere un gran
casino», commenta Watson in italiano. Allora immagina che popolari e sinistra
«potrebbero lavorare a più stretto contatto» fra loro e con gli altri. Mettersi
insieme per l’Ue, creare un’alleanza «sanitaria» per Bruxelles, soluzione a
doppio taglio, che unisce e divide.
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DoppiaM