Torino: l'altra parte della storia


Ieri vi abbiamo raccontato del raid che sabato sera ha devastato, alla periferia di Torino, un campo rom abusivo.

Non ci sono state vittime nè feriti, solo due baracche andate in fumo, ma l'indignazione è fortissima dopo l'assalto scatenato da un gruppo di persone che volevano vendicare il presunto stupro subito, ad opera di «due stranieri» da una sedicenne. Stupro che in realtà non c'è stato.

Voglio tornare sull'argomento consigliandovi la lettura di due post; quello di Ilda Curti, assessore di Torino, che da anni si occupa di periferie ed integrazione e quello di Michela Murgia , scrittrice, che è stato pubblicato dal quotidiano "La Repubblica".

Solo le donne possono raccontare la storia nella sua totalità.
Due donne straordinarie e differenti;
solo loro possono cogliere "l’altra parte della storia"

Ilda Curti
Ricordiamoci anche di queste ragazzine di periferia che vengono difese dal branco soltanto se si pensa che siano state violate dall’altro, l’estraneo, l’assente, il diverso. Perché, altrimenti, sono puttane. Cosa c’è di più primordiale, primitivo, terrificante di un branco di adulti, madri e padri, che inneggiano al pogrom, che applaudono al fuoco, che non riconoscono l’umanità negli umani che scappano? Nei bambini che piangono, nelle donne che urlano?

E’ l’ordalia primitiva dello scontro tribale, del ratto delle Sabine: non toccare la mia donna. Se voglio te la prendo. Il ratto delle "Sabbrine". Lasciate sole, usate come simboli di possesso. Sole, piccole, puttane o stuprate. In fuga nella menzogna, accusando l’uomo nero più vicino, il più facile. Quello a disposizione. L’uomo nero che le mette al riparo dalla riprovazione del branco.

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Michela Murgia
La notizia che invece appare come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata violentata da due “stranieri” piuttosto che ammettere di aver fatto l'amore volontariamente con un ragazzo del posto

Non voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva che se avesse detto la verità, cioè se avesse dichiarato di aver fatto l'amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e trattata come "colpevole" di qualcosa e sarebbe andata incontro a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o fisica. Del resto sono di questi giorni altri di casi in cui dire "sono io che lo voglio" non conviene.

Qualche articolo ieri riportava l'abitudine della famiglia a farla periodicamente controllare da un ginecologo per verificarne l'illibatezza, un uso tribale che, se confermato, direbbe molte cose sul clima in cui la ragazzina deve aver concepito la sua irresponsabile e protettiva bugia. Ma è marginale.

Resta comunque l'immagine di una ragazzina che nell'Italia del 2011 fatica di più ad ammettere
di essere stata consenziente che a farsi passare per vittima di stupro indicando il primo colpevole credibile, magari quello la cui etnia è già in sé una sentenza: rom.

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DoppiaM

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