In questo modo finiremo per cadere di nuovo
Immaginate un ciclista. Un ciclista che, guidando i suoi compagni, sta percorrendo una strada impervia per raggiungere una remota e amena destinazione con un lunghissimo tandem che, sebbene sia relativamente nuovo, sembra mostrare fin da subito gravi disfunzioni dopo ogni breve tratto di strada percorso. Inizialmente, però, non ci dà molto peso, rassicura chi sta dietro di lui e, sospinto dal vigore dato dalla sua giovane età e dalla muscolatura allenata, riesce in breve tempo a portare quel veicolo in luoghi dove i precedenti proprietari, diretti verso la sua stessa meta, non si erano mai nemmeno lontanamente avvicinati. Ma i problemi aumentano, il cielo si incupisce e sembra promettere pioggia, mentre il percorso diviene sempre più malagevole.
Qualche amico che sta pedalando insieme a lui inizia a suggerirgli di fermarsi, di riposare, di far riparare la bicicletta che, in quello stato, non sembra in grado di affrontare le enormi buche che la aspettano. Non li ascolta e continua a pedalare, finché un masso depositato sul tragitto non fa cadere lui e l’intera compagine. Il danno osservabile è una lieve emorragia dal ginocchio, niente di grave all’apparenza, quello reale e invisibile è decisamente più preoccupante, ma – nonostante le opposte esortazioni di cautela dei colleghi – si rimette subito in marcia.
La salita diviene più ripida, la catena inizia a cigolare, ma lui continua. Finché non cadono di nuovo, tutti quanti. Questa volta l’impatto è più duro, la perdita di sangue è evidente e non si può nascondere con una improvvisata e temporanea medicazione. “Fermiamoci” senti da dietro, “magari troviamo tutti insieme una strada più agevole; così ci faremo male”. Lui, però, non li ascolta, anzi inizia ad essere quasi infastidito: crede che qualcuno non pedali più con la sua forza, o che addirittura tenti di farlo cadere di proposito per prendere il suo posto. L’ordine imperativo è di rimettersi in cammino, anche se sopra di loro i tuoni iniziano a riempire il cielo, e alcuni compagni li hanno ormai abbandonati per proseguire a piedi su un’altra strada.
La terza caduta nella quale incorrono dopo pochi metri è rovinosa. Fa male ogni singola parte del corpo, ma soprattutto hanno sbattuto la testa e non ricordano più quale fosse la destinazione che si erano prefissati. Vuoto totale. Sanno che devono andare, devono pedalare per arrivare da qualche parte ma non sanno dove. Il tandem è distrutto, ha perso dei pezzi importantissimi, insieme ad altri componenti del grupppo che hanno lasciato, rendendo necessario uno sforzo ancora maggiore da parte di quelli rimasti. Qualcuno di questi propone di fermarsi, di parlare e di provare a ricordare tutti insieme quale fosse la meta, perché nessuno sembra ricordarlo, men che meno chi era in testa. Ma ancora una volta questo non ci vuole sentire e vuole ripartire subito. Non sa bene per dove, non sa bene con quali forze, non sa bene con quale mezzo, visto che quello che ha necessita chiaramente di una attenta e profonda manutenzione; ma vuole ripartire, mentre intorno a loro, ormai, infuria la tempesta.
Lo ammetto: la metafora è incongrua, banalizzante, poco realistica e forse nemmeno troppo esatta dal punto di vista terminologico(non so dire con certezza se un tandem possa essere condotto da più di due persone, o se quel particolare veicolo assuma invece un altro nome), ma nella mia testa esprime perfettamente il percorso del PD dall’ultimo exploit nel 2014 fino ad oggi. Il veicolo difettoso e imperfetto è chiaramente il Partito Democratico, il leader dello stesso è altrettanto evidentemente quel Matteo Renzi divenuto segretario poco più di tre anni fa. La rappresentazione allegorica della sua segreteria parte dallo sprint iniziale, dalle elezioni europee del 40%, quelle delle grandi paure prima(in quel periodo il M5S era in grande ascesa e faceva il pieno nelle piazze al grido di “Vinciamo noi!”), e delle grandi speranze dopo, quando tutto sembrava ormai in discesa.
Poi arriva la prima battuta d’arresto, quella le cui plausibili cause e i cui possibili effetti vengono analizzati da pochi e ignorati da molti: le elezioni regionali del 2015. Il Partito Democratico perde 2 milioni di voti(considerando anche la riduzione della partecipazione) rispetto all’anno precedente, regala la Liguria a Toti presentando la prima scintilla della scissione con Paita e Pastorino che si sottraggono voti vicendevolmente, perde malissimo in Veneto, vince in Umbria sul filo del rasoio, e fa lo stesso in Campania, Puglia e Toscana, con tre candidati, però, o molto indipendenti dal partito e dal segretario stesso (De Luca e Rossi), o addirittura nemmeno troppo “simpatici” a quest’ultimo (Emiliano). “Abbiamo vinto 5 a 2” è l’analisi approfondita del passaggio elettorale. Così si va avanti.
La seconda caduta sono le amministrative dello scorso anno: altri voti vengono persi ovunque, a Napoli non si arriva nemmeno al secondo turno, nella rossa Bologna per poco non passa la Lega, mentre Roma e Torino sono un plebiscito a 5 Stelle, e se nel primo caso la sconfitta non arriva inaspettata(anche se le dimensioni della stessa lasciano comunque esterrefatti), nel secondo arriva dopo 5 ottimi anni di amministrazione a guida Fassino, e in una roccaforte storica della sinistra.
Nessuna riflessione, nessuna disamina(se non completamente inadeguata) e nessuna discussione: a Roma si è perso solo per Mafia Capitale(e non ci interessa sapere perché il PD vinca solo nei Parioli), a Torino solo per colpa di Renzi. Tutto facilissimo.
Infine lo schianto più rovinoso, quello del 4 dicembre. 19 milioni di voti che affossano il progetto pluridecennale della sinistra italiana, quel disegno di semplificazione istituzionale orientato a riavvicinare la società civile alla politica limitando i luoghi (occulti) di transazione dai quali i cittadini sono esclusi(e spesso infastiditi) e ad adeguare la nostra farraginosa e macchinosa democrazia ad un mondo che sembra viaggiare sempre più veloce di noi. Un progetto che trovava la sua base fondante nel modello maggioritario sul quale(e per il quale?) era nato il PD nel 2007.
Il colpo alla testa che determina il vuoto di memoria è la metafora di un Partito che adesso mi sembra allo sbando, senza un progetto, senza un programma, senza più quella “comune destinazione” da voler raggiungere, dopo la disfatta del referendum. Un partito che allora avrebbe bisogno di fermarsi, di ritrovare il contatto con la sua base, di parlare di lavoro, di scuola, di ecologia, di misure di sostegno al reddito, di lotta alle disuguaglianze, di investimenti pubblici e privati, ritornando ad affrontare battaglie che – diversamente – altri affronteranno al suo posto( e lo stanno già facendo). Quelle destre xenofobe, nazionaliste e protezioniste che, come una tempesta, si sono abbattute su di noi.
Un Partito che – nel momento in cui scrivo queste righe – nonostante la ragionevole proposta di Cuperlo di allungare i tempi fino a luglio, di affrontare le amministrative “nella più larga condivisione degli obblighi”, con una assunzione collettiva di responsabilità dell’esito, favorevole o meno, ha deciso di fare tutto questo in due mesi. Due mesi per ricostruire (quasi) da zero il centrosinistra italiano, per pianificare una piattaforma programmatica organica e comune e consentire ai candidati di sfidarsi sulle singole proposte applicative.
Due mesi che ragionevolmente non saranno niente di tutto ciò, se non una conta interna tra un contendente che, nel bene o nel male, è sulla bocca di ogni bipede pensante di questo paese da tre anni, e degli sfidanti che non avranno nemmeno il tempo di girarsi per intero il paese per presentare la loro proposta politica. “Una fiera dell’antipolitica”, come l’aveva definita Orlando(se penso al futuro scontro Renzi-Emiliano non saprei descriverla in altro modo).
Non avremo un programma nuovo, non avremo un’idea nuova, ma avremo un leader nuovo (probabilmente vecchio). Per qualcuno questo sarà sufficiente per credere di avere un partito di nuovo felice, compatto e consapevole pronto a fare campagna nei comuni, per il sottoscritto stiamo solo avvicinandoci all’ennesima, rovinosa caduta. E rialzarsi, la prossima volta, non sarà più così facile.