Ecco la sintesi della mozione congressuale di Matteo Renzi

Ieri vi abbiamo presentato la candidatura di Michele Emiliano. Oggi tocca alla mozione congressuale di Matteo Renzi.



L’ex segretario del Pd attraverso la consueta enews pubblica la sintesi delle linee programmatiche della sua mozione congressuale
 
Con la consegna delle firme e l’ufficializzazione delle candidature inizia realmente il Congresso. Tre sono i candidati che ambiscono alla segreteria, Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano. In questi giorni dibattiti, iniziative e discussioni nei circoli comporranno le mozioni congressuali in base alle quali gli elettori Pd il 30 aprile sceglieranno il prossimo segretario tramite le primarie.
Matteo Renzi attraverso al sua enews ha voluto pubblicare la sintesi delle linee programmatiche della sua mozione congressuale.


La democrazia dovrebbe essere il sistema che, meglio di qualunque altro, permette a una comunità di determinare il corso della propria esistenza. Ma da alcuni anni è cresciuto in tutt’Europa, e anche al di là, il numero dei cittadini che hanno la sensazione di aver perso il controllo sul proprio destino, di essere in balia di forze incontrollabili che riducono la possibilità di ciascuno di influire sulle circostanze della propria vita.
In alcuni casi si tratta di una preoccupazione di carattere economico, ma spesso questo sentimento di insicurezza va anche al di là, e investe la sfera della cultura, dell’identità e dello stile di vita. Abbiamo la sensazione che il mondo cambi vorticosamente intorno a noi e che i nostri strumenti per influenzarne il corso siano sempre più fragili e invecchiati. La politica tradizionale – e le forze progressiste in modo particolare – hanno tardato a dare una risposta a queste preoccupazioni. Poco a poco, il pragmatismo si è così trasformato in fatalismo, agli occhi di una fascia crescente dell’opinione pubblica occidentale.
È questo il filo che unisce l’ascesa dei nazionalisti dell’Europa dell’Est, la Brexit, l’elezione di Donald Trump e il crescente protagonismo di Marine Le Pen in Francia e della nuova destra in Germania. L’ingrediente che accomuna i nuovi nazionalisti è la promessa di restituire agli elettori un grado di controllo sulla loro vita. E i mezzi che propongono per raggiungere quell’obiettivo hanno sempre un elemento in comune: la chiusura. Chiudere le frontiere, abolire i trattati di libero scambio, proteggere chi sta dentro, elevando un muro, metaforico o reale, rispetto all’esterno. Dimostrare che le loro ricette sono velleitarie nel migliore dei casi, e potenzialmente catastrofiche nel peggiore, non basta. Bisogna prendere sul serio la logica del ragionamento, aldilà delle provocazioni e del folklore.
E la logica dei nuovi nazionalisti dice questo: solo la chiusura può permetterci di riappropriarci del nostro destino, di non essere in balia di decisioni prese altrove, passivi, vulnerabili. La nostra sfida, oggi, è dimostrare che è vero esattamente il contrario. E che le scommesse sul futuro, sul lavoro, sull’ambiente, sull’integrazione sociale, sulla cultura e sul capitale umano, sono l’unico modo per restituire davvero ai cittadini il controllo del proprio destino, anziché precipitare in una spirale di risentimento destinata a ridurre inesorabilmente ogni possibilità di essere protagonisti.
Non si tratta di imbastire una guerra tutta ideologica tra “chiusura” e “apertura” ma di far vivere nel concreto del dialogo sociale e della prassi di governo una nuova alleanza tra libertà e protezioni, tra opportunità e fragilità. E di allargare la sfera dei bisogni: includendo accanto a quello di sicurezza anche il bisogno di appartenenza (sentendosi parte di una comunità) e il bisogno di cooperare (realizzando obiettivi comuni). Sono sfide enormi, soprattutto per un partito di centrosinistra. Il nostro mondo democratico e progressista, aperto e libero, appare oggi in crisi. E forse una delle ragioni per cui al momento si stenta a intravedere un’alternativa credibile all’onda della contestazione populista dipende proprio dal fatto che l’investimento simbolico nella politica e nella storia non è più vivo e forte come una volta. Chiunque abbia ancora la capacità e la voglia di guardare al futuro, immagina grandi meraviglie o immani catastrofi figlie dello sviluppo economico e della tecnica, non di grandi movimenti sociali e politici.
Ma spetta ancora alla politica il compito di immaginare e realizzare una via di uscita. Se l’investimento simbolico nella politica non è più vivo e forte come una volta, essere democratici significa proprio lavorare per riattivarlo. Perché solo in questo sforzo si può sperare di ritrovare le energie morali, intellettuali e politiche per provare a compiere, tutti insieme, un salto dal passato al futuro. L’Europa resta l’orizzonte strategico di queste sfide.
L’unica dimensione sufficientemente vasta per fronteggiare il cambiamento garantendo il rispetto dei nostri valori e del nostro stile di vita. L’Unione Europea è il primo tentativo nella storia di creare un insieme sopranazionale in tempo di pace, senza armi e senza minacce, sulla base della libera adesione dei popoli. Nell’ultimo quarto di secolo, si è trasformata da una zona di libero scambio costituita da 12 piccole nazioni, schiacciate tra due blocchi imperiali, a un colosso formato da 28 paesi e popolato da mezzo miliardo di persone, la maggior parte delle quali condivide un’unica moneta e un’unica frontiera. Da molti punti di vista – e alla luce della storia del nostro continente – si tratta di un miracolo. Ma purtroppo negli ultimi anni, la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico ha ribaltato la percezione dei cittadini. Per molti europei, oggi, l’Unione è diventata il problema, più che la soluzione.
Un ulteriore fattore di perdita di controllo sul loro destino, anziché lo strumento per cogliere le opportunità di un mondo più grande. Lo si è visto nel caso della Brexit e lo si vede anche nell’evoluzione dell’opinione pubblica in paesi storicamente europeisti come la Germania, la Francia e l’Italia. A 60 anni dai Trattati di Roma l’antidoto contro i sovranismi consiste in una convergenza che faccia perno sulle tre più grandi democrazie europee dell’Eurozona, su un modello originale che concilii integrazione e democrazia.

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