Quale futuro per la Villa Reale?
Sede di rappresentanza di Expo 2015, un piano dedicato all'antiquariato e uno “gestito da una società di Monza” sembra lontana anni luce per la Villa Reale la volontà di farla diventare la sede dei ministeri del nord. (qui, qui , qui, qui vi abbiamo raccontato quella farsa).
L'anno prossimo il restauro finirà, ma assai poco sappiamo ancora di cosa conterrà e perché la gente dovrebbe arrivare in città per visitarla. La rivista Vorrei ci racconta cosa ne sarà di questo bene culturale e architettonico.
Quando si comincerà a parlare di cosa ospiterà davvero
la Villa Reale di Monza una volta restaurata?
Questa domanda la ponemmo un paio di anni fa all'allora presidente della Regione Lombardia Formigoni, il quale pensò bene di passare la parola all'allora direttore del Consorzio gestore della Villa, il suo dirigente Petraroia. A cui altro non riuscimmo a strappare che un rimando al Codice dei beni culturali. Ancora oggi, ci dobbiamo accontentare di quanto si legge nell'articolo di Marco Carminati pubblicato sul Sole 24 ore del 5 maggio 2013: «(...) tutto questo piano (il primo, ndr) sarà dato in subconcessione per 20 anni a una società di Monza che curerà in proprio l'organizzazione di mostre, cerimonie, concerti, cene di gala ed eventi aziendali.
Ovviamente un comitato scientifico da noi istituito, composto da esperti d'arte, musica e alta cucina, assicurerà che le manifestazioni siano adatte e in armonia con gli ambienti». A parlare è Attilio Navarra, presidente di Italiana Costruzioni Spa, la società capofila del gruppo che nel 2011 ha vinto l'appalto e che dallo scorso anno sta restaurando il corpo centrale dell'edificio, grazie ai milioni stanziati dalla Regione. Quindi è ufficiale che non saranno loro a gestire la parte “pubblica” delle attività, come era prevedibile visto che si parla di una impresa di costruzioni e restauri. Ma allora a chi toccherà? E in base a quali criteri? Per fortuna non alla fallimentare Scenaperta Spa, visto che il Comune di Monza ha deciso saggiamente di liquidare la sua controllata dopo le enormi perdite in bilancio.
Quella frase — «Ovviamente un comitato scientifico da noi istituito...» — potrebbe sembrare rassicurante. Ma non è detto che lo sia. Intanto perché il vero comitato scientifico è quello previsto dallo statuto del Consorzio del Parco e Villa Reale e non è mai stato nominato. E poi perché questo sentirsi padroni di casa non si capisce davvero da dove salti fuori.
Sarà forse il caso di ricordare che si sta parlando di un complesso di proprietà pubblica, quindi anche di chi scrive e di chi legge, e che — lo ribadiamo — i soldi con cui si sta restaurando la Villa sono anch'essi pubblici, quindi anche di chi scrive e di chi legge. Questi toni da mecenati sono davvero fuori luogo, così come il tono ossequioso dell'intero articolo a nostro opinabilissimo parere. Ricordato ciò, avremo diritto di sapere esattamente cosa faranno in “casa nostra”?
La questione della gestione privata di beni pubblici è molto complessa. Da una parte abbiamo lo Stato e gli altri enti pubblici e la loro cronica scarsità di soldi da investire per restaurare e gestire il patrimonio artistico e culturale italiano (di cui tutti si vantano però); dall'altra abbiamo imprese private che si agghindano da benefattori per inseguire il loro unico interesse: il profitto. La collaborazione di queste due parti può davvero portare al bene comune? Esempi concreti non ce ne sono moltissimi e in genere sono tutt'altro che a lieto fine. Salvatore Settis accenna ad alcuni nell'articolo “Usciamo dalla notte dei beni culturali” e Tomaso Montanari ne elenca altri nel suo ultimo libro “Le pietre e il popolo”.
Il motivo è assai semplice: il patrimonio culturale non è una mucca da mungere o, come vuole quell'orrenda formula, il “petrolio dell'Italia”. Al contrario, costa. Costa come qualsiasi investimento finalizzato a rendere un Paese e la sua cittadinanza migliore. La sanità, la scuola, i trasporti costano. Così i monumenti, i musei, le pinacoteche, le mostre...
Continua a leggere sul sito della rivista Vorrei.
La questione della gestione privata di beni pubblici è molto complessa. Da una parte abbiamo lo Stato e gli altri enti pubblici e la loro cronica scarsità di soldi da investire per restaurare e gestire il patrimonio artistico e culturale italiano (di cui tutti si vantano però); dall'altra abbiamo imprese private che si agghindano da benefattori per inseguire il loro unico interesse: il profitto. La collaborazione di queste due parti può davvero portare al bene comune? Esempi concreti non ce ne sono moltissimi e in genere sono tutt'altro che a lieto fine. Salvatore Settis accenna ad alcuni nell'articolo “Usciamo dalla notte dei beni culturali” e Tomaso Montanari ne elenca altri nel suo ultimo libro “Le pietre e il popolo”.
Il motivo è assai semplice: il patrimonio culturale non è una mucca da mungere o, come vuole quell'orrenda formula, il “petrolio dell'Italia”. Al contrario, costa. Costa come qualsiasi investimento finalizzato a rendere un Paese e la sua cittadinanza migliore. La sanità, la scuola, i trasporti costano. Così i monumenti, i musei, le pinacoteche, le mostre...
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DoppiaM