Venti di guerra soffiano nuovamente sul Medio Oriente
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Venti di guerra soffiano sul Medio Oriente
La situazione è nuovamente precipitata tra Israele e Palestina. Tutto è iniziato il 12 novembre, quando ci sono stati diversi scontri tra i militanti di Hamas e l’esercito israeliano. Dalla Striscia di Gaza i miliziani palestinesi hanno sparato diversi missili anticarro, colpendo una jeep militare israeliana e ferendo quattro militari, di cui uno in modo grave. L’esercito israeliano ha risposto bombardando Zeitun e Shejaiya, due quartieri di Gaza.
Ieri è stato il giorno della strage dei bambini: nove piccoli hanno perso la vita durante un raid israeliano a Gaza, mentre altri sono rimasti gravemente feriti.
I razzi hanno ucciso almeno 28 persone nelle ultime ore nella città. Domenica sera due uomini e un bambino di 6 anni sono morti, dopo l'ennesimo attacco. Molte ore prima, in un'incursione nel quartiere residenziale di Nasser, hanno perso la vita sette membri di una stessa famiglia. Sotto le macerie sono rimasti i corpi senza vita di due donne e quattro ragazzini. Altri tre, fra loro un bimbo di 18 mesi, sono morti nelle prime ore del giorno.
Intanto le sirene tornano a risuonare a Tel Aviv, per la quarta volta negli ultimi giorni. Due esplosioni si sono udite in città. Quattro razzi palestinesi hanno colpito la città israeliana di Ashkelon, città costiera del sud di Israele vicino al confine con Gaza, e ci sono feriti. Un altro attacco è stato poi sferrato contro Shaar Haneguev, nei pressi della frontiera con Gaza. Secondo le autorità israeliane, i missili lanciati da Gaza contro il territorio israeliano sono stati 55 e hanno provocato il ferimento di 12 persone.
La comunità internazionale lavora alla possibilità di ottenere almeno una tregua, che possa far tornare il dialogo tra le due parti, magari con la collaborazione di ONU e Stati Uniti; non a caso Obama e Ban Ki Moon hanno fatto sentire la loro voce, proprio per chiedere un cessate il fuoco.
Anche sul fronte siriano la situazione non migliora. Lo racconta in un intenso reportage per La Stampa Domenico Quirico.
Ribelli siriani invocano Allah prima dell’operazione con cui si sono ripresi la grande moschea Umayyad, nella città vecchia di Aleppo
I morti giacciono nelle pieghe di un fosso, forse un canale disseccato, a pochi metri, tra calcinacci e immondizie, come un’apparizione arbitraria. Così estranei a questo cielo immenso appoggiato lievemente sul ciglio delle case distrutte. I morti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dall’onda delle rovine. «Sono lì da due giorni, presi d’infilata nella terra di nessuno, più avanti ci sono altre donne e due bambini. Loro non lasciano che li portiamo via, sparano» mi dice il capitano, piccolo tarchiato, la faccia invasa da una barba rossa lucida e ricciuta. La luce sporca del mattino gli batte nel viso unto di insonnia e di fatica.
Li vedo bene, questi morti, potrei quasi toccarli. Una donna è seduta con la schiena appoggiata al corpo rannicchiato di una compagna, ha la testa reclinata sul petto e guarda di sotto in su con gli occhi spalancati, altri stanno distesi a due o tre dietro sfatti cespugli, ancora con le borse strette nel pugno o rovesciati sul dorso, le braccia aperte, sorpresi dalla morte nel supremo gesto di abbandono dell’uomo colpito al petto. Sembrano seguire con gli occhi ogni nostro passo, ogni gesto. Ci fissano con uno sguardo pieno di stupore e di rimprovero, come se venissimo a carpire un loro segreto, a profanare l’orrendo e vietato disordine della guerra e della morte.
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DoppiaM