Avevamo una banca


Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblica la trascrizione di una telefonata tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, durante la quale l’allora segretario dei DS chiede all’allora amministratore delegato di Unipol «Ma abbiamo una banca?». La domanda fa riferimento ai tentativi di acquisizione da parte di Unipol della Banca Nazionale del Lavoro. Tale operazione in quelle settimane era oggetto di una complessa e frastagliata inchiesta giudiziaria che i giornali definirono, ahinoi, Bancopoli. Giovanni Consorte si era dimesso dal suo incarico soltanto il 28 dicembre proprio in seguito alle indagini.

La pubblicazione della frase di Fassino generò una grandissima quantità di polemiche e accuse che attraversarono in modo trasversale l’arco politico italiano: il centrodestra ne approfittò per denunciare quelle che a suo parere erano operazioni finanziarie condotte da terzi per conto della sinistra italiana, nello stesso centrosinistra moltissimi lamentarono la presunta interferenza di Fassino con gli affari di una banca del mondo cooperativo – «le coop rosse! il PCI! la questione morale!», avete capito.

 Come è andata a finire? Lo racconta Ronny Mazzocchi sulle pagine de L'Unità

- Quando si tratta di questioni giudiziare, soprattutto se riguardano fatti e protagonisti di vicende finanziarie che sono stati messi alla berlina dai cosiddetti poteri forti, il tempo dell’accusa e della distruzione d’immagine è sempre infinito. Mentre quello della confutazione delle accuse e della riabilitazione non arriva quasi mai.

Anche le poche volte che arriva, come è successo ad esempio con la recente sentenza della magistratura sulla vicenda Unipol- Bnl, tutto avviene quando i tempi della vita pubblica ed economica sono andati talmente oltre che al ristabilimento della verità 
non può seguire alcuna conseguenza di rilievo.

Le operazioni finanziarie ingiustamente sventate sotto i colpi dell’offensiva mediatico-giudiziaria non possono infatti più essere ripristinate e l’unica consolazione resta la soddisfazione personale degli accusati nel vedersi scagionati da accuse spesso infamanti.

Per molto tempo Giovanni Consorte, l’abile regista di quella operazione finanziaria, è stato accusato da tutti i principali giornali di avere ordito un diabolico piano per impossessarsi non solo di due importanti banche italiane ma anche di uno dei principali gruppi editoriali del Paese.

Si è trattato di una colossale mistificazione che ha cercato di accomunare - grazie a un mercato di intercettazioni legali o illegali, ma pur sempre illecitamente pubblicate – quello che nulla aveva in comune: l’opa di Unipol su Bnl, le scalate di Ricucci al Corriere e quelle di Fiorani ad Antonveneta.

Il tutto è stato abilmente presentato come parte di uno stesso disegno politico-finanziario che mirava a sovvertire gli equilibri della finanza e minacciava la libertà di stampa e la stessa democrazia. 

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DoppiaM

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