Too little, too slow, too late


Ieri vi abbiamo raccontato del summit di Bruxelles dove i leader dei paesi dell’Unione Europea si sono accordati su una modifica dei trattati europei.

Quest'oggi facciamo il punto della situazione con Lapo Pistelli, responsabile Esteri del PD.

“Troppo poco, troppo lentamente, troppo tardi” non basta più.

Non possiamo che sperare che il vertice europeo raggiunga un’intesa sulle proposte avanzate in questi giorni per affrontare l’emergenza che strangola l’Europa da mesi, ma abbiamo già ora l’inquieta consapevolezza che le decisioni che saranno adottate sono al di sotto del coraggio che richiede questo passaggio storico.
La crisi non è economica, ma innanzitutto politica.

Pavel Sikorsky, una settimana fa, ha affernato a Berlino: “Credo di essere il primo ministro degli esteri polacco della storia a dire questa cosa. Temo la potenza della Germania meno di quanto comincio a temere la sua inattività.” Helmut Schmidt, arringando la platea della Spd dall’alto dei suoi 93 anni, ha invitato a ricordare che ogni surplus tedesco corrisponde al deficit di altri, che questo è il tempo della condivisione della forza e della debolezza, che se l’euro fallisce si distrugge il mercato interno e fallisce quindi anche l’economia tedesca.

Infine, mai come oggi, gli americani, dal Presidente Obama in giù, tifano perché l’Europa faccia il salto di qualità. Mi hanno chiesto a Washington la scorsa settimana: “Che cosa aspettate a trasformare la Banca Centrale Europea in un prestatore di ultima istanza (è ovvia l’analogia dalla loro prospettiva con la Federal Reserve) ? Cosa aspettate ad avere una attività credibile di supervisione europea dei mercati finanziari ? Cosa aspettate a dotarvi degli Stati Uniti d’Europa che si occupino di crescita comune visto che oramai accettate una supervisione esterna sulla disciplina fiscale ?”. In tanti anni, mai successo prima.

La politica europea ha paura perché la crisi ha battuto duramente non solo sui cittadini e sui consumi.
Ungheria, Gran Bretagna, Slovacchia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Danimarca, Grecia, Italia: 9 governi dell’Ue hanno cambiato segno politico in 18 mesi, per sconfitta o per abbandono; 3 nel 2010, 6 nel 2011, 6 centrosinistra, 3 centrodestra.

La buona notizia è stata ovviamente l’ultima caduta della serie.
Sono emersi i limiti strutturali della costruzione europea, non c’è dubbio purtroppo. Si è bloccato il meccanismo di rifinanziamento che da sempre muove l’economia delle nazioni: gli Stati emettono debito, l’economia cresce, le banche fanno girare il denaro e gli investitori sottoscrivono i titoli. Oggi, la crescita è quasi a zero, gli Stati hanno troppo debito e ne emettono di nuovo ma gli investitori scappano o pretendono un interesse ben alto e le banche non fanno più girare il denaro poiché è crollata la fiducia.

Così la costruzione non ha retto all’effetto rimbalzo di una crisi nata negli Stati Uniti. Ma ai limiti istituzionali dell’Europa si è sommata una responsabilità della politica: “too little, too slow, too late”, troppo poco, troppo lentamente, troppo tardi, è stato il risultato dei mesi di guida franco-tedesca. Un Paese come la Grecia che incide per il 2% del Pil europeo ha buttato in crisi di fiducia l’intero continente; decisioni giuste ma tardive sono state prese quando costavano il doppio, suggerimenti considerati irrealistici sono divenuti realtà con un anno di ritardo.

La Germania ha sostanzialmente vinto la partita. I Paesi dell’Europa meridionale hanno accettato un livello senza precedenti di disciplina fiscale, l’inserimento del pareggio di bilancio in costituzione (senza condizioni e tempi, come invece è previsto per la Costituzione tedesca), hanno accettato una supervisione preventiva della propria sovranità in materia di prelievo e di spesa, ingoieranno perfino la possibilità che vengano date indicazioni inemendabili, pur se questo apre un problema vero di ricongiunzione fra sovranità politica e legittimazione democratica.

Se l’emergenza ha dettato le condizioni, è indispensabile allora trarne tutte le conseguenze. Che personalmente riassumo in quattro elementi.

Lapo Pistelli, responsabile Esteri del PD.

1. Tassa sulle transazioni finanziarie, nuovi meccanismi di supervisione europea dei mercati finanziari, bilancio europeo fondato su risorse proprie sono un menù che può essere realizzato con i Trattati attuali: si tratta non solo di asciugare la macchia di umidità sul muro ma di riparare anche il tubo che perde.

2. Servono politiche economiche comuni coerenti con la comune disciplina fiscale, altrimenti continueremo a pretendere di guidare una macchina che ha solamente il freno ma non contempla l’acceleratore.

3. Temo molto la modifica dei Trattati come possibile vaso di Pandora per traiettorie divergenti, ma se i Trattati devono essere modificati (per fare avanzare l’Europa, per “vendere” l’intesa all’opinione pubblica tedesca e alla sua Corte Costituzionale), si usi un accordo inter-istituzionale per coinvolgere assieme Commissione e Parlamento Europeo rinunciando al solo metodo inter governativo, come suggeriscono Giuliano Amato e Romano Prodi.

4. Si abbia il coraggio di usare l’articolo 48 per avviare una Convenzione Costituente che veda l’autonoma e preventiva iniziativa del Parlamento Europeo come base per una vera e propria cessione di sovranità democratica ad una guida politica europea, capace di riconciliare la frattura che si è aperta oggi.

Ci muove la consapevolezza che ciò che magari viene oggi negato o definito impossibile sarà considerato ragionevole e possibile domani. Come sempre è stato. E pensiamo che il Presidente del Consiglio abbia invece il profilo personale e la cultura politica per farsi interprete di questa idea italiana dell’Europa che vogliamo.

Salvare l’euro, salvare l’Europa richiede coraggio. “Too little, too slow, too late” non serve più.

DoppiaM

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