I luoghi delle stragi nazifasciste. Un Atlante per capire e ricordare


Il 25 aprile è passato ma non è un buon motivo per non continuare a tenerne viva la memoria. E non è modo migliore per ricordarlo che approcciarsi a quegli eventi attraverso gli strumenti della storia. Come fa il libro curato da Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino “Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943 – 1945)” edito da Il Mulino.
Il testo è una narrazione scientifica e rigorosa, divisa per fasi, zone geografiche, temi di riflessione generali, delle varie violenze e stragi, ad opera dei nazifascisti, che  avvennero nel nostro paese.
Come scrive Carlo Gentile nel suo saggio dal titolo “I tedeschi a la guerra ai civili in Italia”, che assieme ad altri compone il volume, “in nessun altro paese occidentale si verificarono violenze paragonabili a quelle commesse in Italia dalle truppe di occupazione. Per questo possiamo ben dire che il carattere particolare della guerra condotta dalle forze armate del Terzo Reich in Italia abbia dato origine ad una specifica esperienza di guerra, diversa da quella che contraddistingue il fronte orientale o il fronte occidentale”.
Questo assunto basterebbe per capire l’utilità e l’importanza del testo. Un’opera fondamentale che analizza in profondità ed in modo particolareggiato, tutte le sezioni geografiche del nostro paese su cui si è abbattuta la violenza nazista, anche andando oltre le più tristemente note, penso a quelle venete o dell’Appennino dell’Italia centrale come Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema.
Interessante, in questo senso, ad esempio, la situazione descritta nel saggio di Giuseppe Angelone e Isabella Insolvibile “Il Sud”, il quale indica come “la storia della Resistenza e delle stragi del Mezzogiorno d’Italia è una storia breve, concentrata in pochi mesi, ma non per questo meno intensa di quella avvenuta in altre parti del Paese”.
Mi sembra che il fulcro che ha guidato questo sapiente ed accurato studio faccia perno su quanto è scritto nell’introduzione e cioè il proposito di “un’attenta contestualizzazione dei massacri e la stessa idea di un lavoro di censimento – catalogare da un lato in base a caratteristiche comuni, e differenziazione dell’altro -ha permesso di evitare richiami al terrore fine a se stesso, all’irrazionalità del male, o al substrato immodificabile di violenza della natura umana, mettendo invece in evidenza la loro razionalità strumentale, l’alternarsi di diverse fasi strategico-militare, che rimandano a quadri locali, alla presenza sul campo di un  reparto tedesco o di un altro, alla forza della guerriglia partigiana, ecc.”.
Insomma proporre la guerra con tutta la complessità delle forze in campo, in tutta la tragicità del contesto, senza per questo porre in secondo piano il tragico ruolo avuto dalla delirante ideologia nazista, senza la quale alcuni eventi apparirebbero poco comprensibili, sullo svolgersi degli episodi militari.
Ciò non significa abbandonare le più note spiegazioni di concetto sulle ragioni di tanta violenza (penso a Dossetti rispetto al massacro di Marzabotto, alla sua illuminante definizione della strage come di “delitto castale” o alla Arendt nella altrettanto importante e fondamentale valutazione sulla “banalità del male”), ma vuol dire usare, queste ricche e determinanti riflessioni, come ubi consistam di una stratificazione storica che vive nella peculiarità del tempo (la violenza dell’ideologia nazista su tutte) e che si nutre di un pregresso, soprattutto nell’ambito della formazione, organizzazioni, dispiegamento e mentalità dell’esercito tedesco da valutare appieno come aspetti fondanti e concorrenti rispetto a ciò che è accaduto.
I saggi sono tutti di rilievo, interesse e di particolare spessore scientifico. Non c’è dubbio che quelli che aprono il volume, ne costituiscano un “passaggio esegetico” ineludibile per comprendere la totalità degli avvenimenti narrati e come la ricerca sia nata e come si sia sviluppata.
Carlo Gentile tratteggia, come aveva fatto già in altri volumi, una interessante ed esaustiva descrizione delle cosiddette regole d’ingaggio dell’esercito tedesco in Italia nel momento in cui quest’ultimo passò da alleato ad occupante, declinate secondo linee ideologiche, militari e di formazione della truppa e degli ufficiali, mettendo in luce come quanto successo possa essere attribuito oltre che alla formazione nazista di molti soldati anche alla mentalità dell’occupante tedesco, ad una tattica e strategia bene precisa che scontava assieme ad altri fattori l’esperienza di alcuni dei soldati sul fronte orientale. Da non dimenticare l’idiosincrasia delle truppe regolari della Wehrmacht per la guerra partigiana: “L’effetto psicologico – ricorda Gentile – dei movimenti di resistenza è sempre stato molto maggiore della loro reale estensione e della loro efficacia militare: il serpeggiare di un sentimento di insicurezza rendeva del tutto imprevedibile il comportamento dei soldati nei riguardi dei civili, tanto che il semplice sospetto di collusione con la resistenza armata bastava da solo a innescare atti di violenza e misure di rappresaglia draconiane”; nonché la particolare catena di comando lungo cui si snodava il sistema di ordini della Wehrmacht, basato essenzialmente sulla delega del comando, da parte degli organi centrali, ai comandamenti subalterni. Inoltre nella particolare formazione, di derivazione prussiana, dell’esercito tedesco esisteva una “radicale ripugnanza per i combattenti irregolari”.
Il volume affronta, inoltre, nel quadro globale delle stragi, il ruolo dei militi della Rsi, la cui collaborazione e il cui ruolo, rispetto ai fenomeni di repressione dura e immotivata, non fu secondario riguardo a quello tedesco. Basti pensare alle bande composte su basi personali e, a volte, da elementi presi dalla delinquenza comune. Scrive Rovatti che “la violenza autonoma fascista, veicolata invece sotto il controllo delle autorità della Rsi, si conferma caratterizzata da una molteplicità di concorrenziali soggetti in armi simultaneamente operativi, da una progressiva feudalizzazione del conflitto e dalla conseguente contraddittorietà delle politiche di repressione parallelamente messe in campo dalle diverse anime del fascismo. All’interno di questa complessa costellazione di poteri istituzionali ed eversivi si delinea negli ultimi mesi di guerra una violenza ai confini della delinquenza comune, caratterizzata da furti e da azioni condotte a fine di lucro”.
Mi sembra particolarmente interessante, però, il taglio complessivo del volume che si compendia, a mio parere, nel lavoro di Baldissara su “Il massacro come strategia di guerra, la violenza come forma di dominio dello spazio”, perché coglie l’humus del confronto giocato nell’ambito della seconda guerra mondiale, nel nostro paese, fornendoci una chiave di interpretazione del conflitto, come momento di conquista, conservazione e difesa di una sorta di lebensraum nazista, e di fronte a ciò di una Liberazione e di una Resistenza come redenzione dello spazio, e quindi del luogo, dalla storia di violenza e soprusi di cui lo avevano “intriso” le violenze nazifasciste.

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