L’economia 4.0 funziona. I robot e l’impatto occupazionale
L’innovazione distrugge ma ricrea, come direbbe Joseph Schumpeter. Luigi Gentili per unità.tv
La quarta rivoluzione industriale è alle porte. Si parla di industria 4.0, l’avanguardia nei sistemi produttivi. Al livello nazionale il Ministero dell’economia ne ha fatto uno dei pilastri per l’innovazione economica, basti pensare al super-ammortamento e all’iper-ammortamento. Due forme di agevolazione, queste, per favorire gli investimenti tecnologici delle imprese. L’industria 4.0 comprende diversi settori produttivi, dalle nanotecnologie alla robotica, dalla realtà aumentata a l’internet delle cose. La “fabbrica intelligente”, come la chiamano molti esperti del settore, potrebbe rappresentare la cellula di base per innescare un salto prestazionale nel nostro sistema produttivo, migliorando la competitività delle imprese.
Si, perché la competitività serve. Negli ultimi anni il potenziale industriale dell’Italia si è ridotto del 19,5%, mentre quello tedesco è aumentato del 6,5%. Ciò sottolinea la necessità di rafforzare il sistema industriale, e dato che le stime su possibili incrementi di produttività sono alte, tra il 30 e il 50%, la robotica e il digitale vanno incentivati. Molto dovrà essere fatto poi sul fronte culturale. Affinché l’industria 4.0 decolli veramente, nel lungo periodo, occorre investire anche nella cultura 4.0: competenze, management, lavoro di rete e localizzazioni produttive. Qui possono intervenire gli investitori privati. Anche le imprese devono fare la loro parte. Esiste poi un’altra problematica, spesso strumentalizzata al livello politico: il lavoro. Il nodo è sempre lo stesso: sebbene l’innovazione 4.0 consente un aumento della produttività aziendale, l’occupazione cresce o si riduce?
Una parte della comunità scientifica, forse frettolosamente, sembra dare una risposta negativa. La fabbrica intelligente potrebbe sostituire le macchine alle persone e l’occupazione si ridurrebbe. Già John Maynard Keynes, all’inizio del novecento, parlava di “disoccupazione tecnologica”: l’automazione avrebbe progressivamente tolto l’uomo dal mercato del lavoro per sostituirlo con macchine più efficienti. Se lo diceva lui, quando c’era il fordismo, il fenomeno dovrebbe essere ancora più accentuato oggi con l’industria robotizzata. E’ per questo che l’economista britannico Anthony Atkinson, nei suoi studi sulla diseguaglianza, sottolinea l’importanza di incoraggiare l’innovazione in una forma che aumenti l’occupazione. Secondo Atkinson occorre dare rilievo alla dimensione umana della fornitura di servizi. La direzione del cambiamento tecnologico dovrebbe diventare una preoccupazione esplicita della politica.
Esistono dei settori, come i trasporti, la logistica o il supporto amministrativo che saranno i primi ad avere un impatto dall’introduzione dei robot. Poi seguiranno tutti gli altri comparti a basso valore aggiunto. L’operario generico, che si occupa di attività elementari, monotone, tende ad uscire dall’industria 4.0. Proprio quell’operaio alienato che i critici dei robot hanno sempre cercato
di elevare al livello professionale. Saranno molte le persone che dovranno riconvertirsi professionalmente. Per questo vanno bene le politiche di inclusione, come la riduzione delle imposte legate al lavoro, la formazione professionale, le politiche attive e la flexicurity. Anche perché l’esercito industriale di riserva, espulso dall’industria tradizionale, se lasciato solo e indifeso si sposta verso movimenti politici estremi. E’ noto che Donal Trump, negli Stati Uniti, ha vinto negli stati che presentano percentuali più elevate di lavoro “di routine”, ossia quello maggiormente colpito dall’automazione. Stando a Jeremy Rifkin, poi, la disoccupazione tecnologica crea criminalità e disuguaglianza sociale. Ecco allora emergere le soluzioni più bizzarre, come quella del socialista francese Benoît Hamon secondo cui sarebbe giusto imporre una tassa sulla ricchezza creata dai robot. Un vero e proprio freno agli investimenti, all’innovazione e alla competitività.
Non tutti concordano su queste posizioni catastrofiste. C’è anche chi sostiene che i robot non sono nemici del lavoro. Gli ottimisti, in genere, sono convinti che l’automazione produca un risparmio dei costi che, a loro volta, fanno abbassare i prezzi e fanno aumentare il fatturato. La maggiore domanda fa crescere i posti di lavoro. Questi, in parte, andranno ancora ai robot ma in parte andranno a lavoratori in carne ed ossa. Chi ci dice, però, che la crescita del fatturato non finisca in altri investimenti tecnologici? Oppure finisca in attività speculative, oppure sia semplicemente tesaurizzata o spesa nell’economia del lusso? O, ancora, sparisca tra le tante spese che la crisi economica accresce quotidianamente?
La soluzione è un’altra. L’innovazione distrugge ma ricrea, come direbbe Joseph Schumpeter. Essa crea nuove opportunità, come l’importanza di tutti quei servizi addizionali ad elevata intensità di lavoro che sono parte della fabbrica 4.0. Possono essere servizi legati allo sviluppo di capacità “soft”, indispensabili per commercializzare i prodotti tecnologici oppure servizi che incentivano il capitale umano nelle “fabbriche” o, ancora, servizi posti come rimedio alle “esternalità” negative prodotte dalla tecnologia stessa. Nascono così nuovi ambiti di sviluppo, che gli imprenditori dovrebbero saper cogliere, investendo le plusvalenze derivate dall’aumento della produttività nel branding valoriale, ad esempio, o nella comunità aziendale, o nella tutela dell’ambiente circostante. Si tratta di settori legati alla cultura 4.0. Si tratta di tre esempi legati, rispettivamente, a tre servizi di supporto all’automazione che creano nuovi posti di lavoro.