Il commento presidente del Partito Democratico
Matteo Orfini, presidente del Partito Democratico e
dal dicembre 2014 commissario straordinario del PD di Roma,
nominato dopo lo scandalo di Mafia Capitale ha scritto un post su Facebook nel
quale spiega quali sono secondo lui le ragioni della sconfitta a Roma.
Dopo un risultato come quello di Roma credo che
solo una cosa non si possa fare: discutere per finta. Abbiamo il dovere della
sincerità. Che significa riconoscere gli errori, ma anche ricostruire i fatti
con precisione per evitare di sbagliare ancora. E vale per tutti, prima di
tutto per me. Provo a dare il contributo iniziale.
Io la vedo così: 18 mesi fa sono diventato
commissario di Roma. Non per un capriccio di Renzi. Ma perché la città era
travolta dallo tsunami Mafia Capitale. Inutile qui ricordare nomi e cognomi di
quelli che furono coinvolti tra i nostri compagni di partito. Non derubricammo
la questione sotto la categorie delle “responsabilità individuali”, perché
sarebbe stato un falso.
Chiunque abbia un briciolo di onestà intellettuale
sa che il nostro partito a Roma aveva una enorme responsabilità politica,
ovvero quella di non essersi accorto di quanto stava accadendo nella città.
Perché troppo preso da una guerriglia interna continua. E perché dopo la
sconfitta di Rutelli non aveva saputo negli anni dell’opposizione ad Alemanno
ricostruire un progetto per la città, abbandonandosi spesso a una logica
consociativa che ha finito per farci molto ma molto male. Avevamo smesso di
pensare alla città e ci eravamo chiusi al nostro interno. Non contava il
consenso esterno, ma la ripartizione di quello interno. E per vincere quella
sfida tutto era lecito: imbarcare ceto politico di destra, infeudare i circoli,
truccare i congressi. Accumulare debiti che “tanto non si pagano mai”.
Dopo la sconfitta pensammo di ripartire non dalla
città, ma dai nostri equilibri. Tessere e preferenze. Sui limiti di quella
stagione ha scritto pagine molto precise Goffredo Bettini nel suo ultimo libro.
Il Pd di Roma quando sono diventato commissario
questo era. E il mio lavoro aveva l’obiettivo dichiarato di cambiarlo. Per
questo il rapporto Barca (con i suoi pregi e le sue imprecisioni), per questo
le chiusure dei finti circoli, la riorganizzazione, per questo le liste pulite
e aperte, per questo il piano di rientro dei debiti.
Ma non abbiamo dovuto affrontare solo la
rigenerazione interna. C’era –e c’è ancora, enorme- un problema di rapporto con
i romani. Oggi molti scoprono che non prendiamo voti nelle periferie. Lo
segnalo dal primo giorno, da quando abbiamo cominciato andando al Laurentino 38.
E’ almeno un decennio che va così. Le ragioni sono diverse. In parte figlie di
una fatica generale del nostro partito nelle aree periferiche delle grandi
città, dovuta anche alla crisi che ha morso di più in quei luoghi. Un po’ dallo
specifico romano, dalla storia di quei quartieri, dal modo in cui sono stati
progettati, costruiti e subito abbandonati. Su questo ha scritto cose
importanti (e severamente autocritiche) Water Tocci nel suo ultimo libro. In
quelle periferie o non c’eravamo o avevamo affidato a un notabilato piuttosto
degenerato il rapporto coi cittadini. E questo evidentemente non ha aiutato.
Roma si è strappata perché noi non abbiamo saputo ripensarla. Il nostro partito
è pieno di gente che parla di perfierie pensando che siano Garbatella. Me lo
sono sentito dire persino da qualche assessore, in questi mesi.
Ecco, qui sta anche il limite più forte
dell’esperienza Marino: aver pensato che Roma finisse con le Mura Aureliane.
Chiunque abbia girato la città in questa campagna elettorale sa che i romani in
periferia non ci criticavano per aver dimesso Ignazio Marino, ma per averlo
eletto. E d’altra parte la scelta della sua candidatura fu la soluzione
emergenziale (e in quanto tale inevitabilmente inadeguata) inventata per
mettere una toppa al vuoto di prospettiva politica lasciato dalla gestione
scellerata dei 5 anni di opposizione ad Alemanno. Ho provato a salvare quella
esperienza fino in fondo (e per questo sono stato assai criticato) proprio
perché consapevole che sommare a mafia capitale la certificazione di un
fallimento amministrativo avrebbe reso difficilissima la sfida. Ma è stato
impossibile farlo.
Recuperare il distacco che si è creato con una
parte così larga della città non è un lavoro semplice. Serve consapevolezza,
che in molti è mancata. Serve umiltà. Serve tempo. E serve un partito che sia
strumento di questa battaglia. Prima delle elezioni ho ricordato a tutti che
entro ottobre avremmo dovuto convocare il congresso, perché questo prevedono le
nostre regole. E questo accadrà. Quella sarà la sede in cui faremo le scelte,
ma è ovvio che abbiamo bisogno di discutere, da subito. Come dicevo all’inizio
di questo post –e come giustamente auspica Roberto Morassut oggi- facciamolo
però seriamente e senza ipocrisie. In questa campagna elettorale si è
cominciato a vedere un partito nuovo, aperto a esperienze civiche, che ha
saputo rimettersi in gioco e in discussione. Tanti candidati ci hanno provato
con freschezza e passione, magari accettando di misurarsi per la prima volta
proprio nel momento più difficile. Alcuni ce l’hanno fatta, altri no. Ma non
dobbiamo disperdere il loro entusiasmo.
Guai a fare l’errore del dopo dopo Rutelli, guai a
chiuderci e a ripartire ancora una volta da tessere e preferenze. Perché questo
vorrebbe dire riproporre il logoro schema della ricerca di un equilibrio
interno per auto tutelarci, quando invece a noi serve riconnetterci con la
città.
Voglio essere esplicito: il problema oggi a Roma non è tornare a prima del commissariamento, ora che il commissariamento sta per terminare.
Voglio essere esplicito: il problema oggi a Roma non è tornare a prima del commissariamento, ora che il commissariamento sta per terminare.
Prima del commissariamento c’era il Pd di mafia
capitale. Che è la ragione di fondo per cui siamo oggi a commentare una
sconfitta. C’era un partito respingente, c’era un’amministrazione inadeguata,
c’erano assessori che infrangevano le regole, più o meno consapevolmente. C’era
il rapporto incestuoso con le municipalizzate, con gli interessi organizzati.
Cose che in questi mesi abbiamo provato a spazzare via, pagando a volte un
prezzo alto. Se qualcuno vuole tornare a quel modello di partito, lo dica
chiaramente. Ma sappia che quel passato non tornerò mai. Perché oggi siamo
debilitati e convalescenti. Prima eravamo nel pieno della malattia.
Io credo che il nostro obiettivo debba essere
opposto: cogliere con grande umiltà il segnale vero che viene dalla città.
Ascoltare, confrontarsi. Per aprirsi sempre di più e trovare fuori le energie
necessarie a rigenerarci. Mostrando di saper imparare dai nostri errori.
La scelta di fondo è esattamente questa: ne parliamo tra di noi o proviamo a coinvolgere i romani in questa discussione? Io non ho dubbi su quale sia la strada giusta, anche se più difficile e faticosa.
Infine ci tengo a ringraziare Roberto Giachetti.
Ieri ha detto che la sconfitta è solo sua. Non è vero. Insieme abbiamo
combattuto, abbiamo raggiunto un ballottaggio non scontato. E abbiamo perso, di
tanto. Ma l’abbiamo giocata fino all’ultimo minuto.
Lui ci ha messo cuore,
passione e impegno. E ci ha aiutato in questa battaglia difficilissima. E per
questo gli dobbiamo solo dire grazie. E con lui ai candidati presidenti di
municipio. A quelli che come Sabrina Alfonsi e Francesca Del Bello ce l’hanno
fatta. E agli altri che con coraggio ci hanno provato. E ai nostri militanti
che in condizioni complicatissime hanno fatto una campagna elettorale bellissima
senza mai risparmiarsi.
Virginia Raggi è il sindaco di Roma. Ha avuto un grande risultato e gliene diamo atto. Le faremo una opposizione dura e costruttiva, ma senza sconti.