Trent'anni fa moriva Rocco Chinnici, il padre del Pool Antimafia


Il 29 luglio 1983 veniva ucciso dall’esplosione di una Fiat 126 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico il magistrato Rocco Chinnici. Insieme a lui sono morti il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Federico Stefano Li Sacchi.
Il giudice istruttore di Palermo fu il padre del pool antimafia, chiamando intorno a se giovani come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, inaugurando così una metodologia di contrasto alla mafia che ebbe esiti molto positivi.

Fu anche il primo a recarsi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e dei pericoli della droga.

«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi» - diceva - «fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».

In una delle sue ultime interviste disse:

«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
 Un libro, uscito ultimamente, ne racconta la storia, sotto la veste di un diario scritto da due giovani che vissero i momenti dell'attentato, dal quale proponiamo qualche stralcio:

Erano ancora in pigiama. Si ritrovarono catapultati in strada, strappati ai loro letti e al torpore dell’estate. Il destino, quella mattina, diede loro appuntamento di buon’ora.
Correvano per inerzia, dietro il boato terrificante, con un sinistro presagio dentro il cuore. Il tempo e lo spazio si fermarono, per Giovanni ed Elvira, alle 8:05 di venerdì 29 luglio 1983.
In via Giuseppe Pipitone Federico, nella Palermo residenziale nata dal «sacco» edilizio degli anni Sessanta-Settanta, l’aria calda era irrespirabile. L’atmosfera rarefatta, surreale, come nel peggiore degli incubi di due ragazzi di 19 e 24 anni. Una gigantesca coltre di fumo, di polvere e di gas avvolgeva tutto: la scala, l’androne, il palazzo al numero civico 59, la loro casa. E la strada, dove non c’erano più l’asfalto, i marciapiedi, le auto parcheggiate, quelle che di solito cominciavano a transitare, i pedoni che camminavano. Era tutto informe.

Al centro, un grande cratere. Intorno, un groviglio, un ammasso di lamiere, calcinacci, vetri, macerie. Pezzi di cose indefinite. Dentro quell’inferno, dove qualcuno era stato dilaniato, o esalava l’ultimo respiro, e altri miracolosamente scampavano alla morte, c’era il loro papà, il giudice Rocco Chinnici.
[continua]

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