La buona politica? Si impara alla scuola di partito


Quella di sabato 30 settembre, alla Scuola di partito Pier Paolo Pasolini, è stata una giornata ricca di emozioni. Non solo perché, ancora una volta, abbiamo avuto la possibilità di incontrarci e fare rete, di discutere senza che le contingenze politiche inasprissero i toni, ma anche perché i relatori invitati a parlare non hanno disdegnato di far trasparire la loro emotività, mettendoci a parte delle loro speranze deluse e delle loro aspettative per il futuro. Per tutti un solo, grande interrogativo: quali obiettivi deve porsi la cosiddetta “buona politica”?
La buona politica è pensare a ciò che è importante e valorizzarlo con fondi e risorse adeguate. Fare buona politica significa fare cittadinanza e agire non solo nell’ambito più strettamente politico, ma anche in campi solo apparentemente distanti, come quello educativo e quello creativo (si pensi, ad esempio, alla narrazione, e si capirà quanta forza possano esercitare le arti sull’immaginario sia individuale che collettivo). La buona politica dovrebbe riflettere sulla possibilità di elaborare nuovi modelli, in un mondo dove le ideologie sono morte (ma lo sono davvero?) e che, come vedremo, è ormai da tempo entrato in crisi.
La buona politica non può prescindere dall’ascolto dei cittadini e, soprattutto, deve iniziare a essere concepita come vero e proprio sinonimo di responsabilità, in particolare nell’esercizio del lavoro. E la responsabilità si costruisce mediante la formazione. Proprio di scuola e formazione ci ha parlato la prima relatrice della giornata, Luigina Mortari, docente di Pedagogia all’Università degli Studi di Verona, che ha aperto la lezione richiamando Paul Ricoeur e quindi precisando la distinzione cruciale tra etica e morale. Se la morale, sorretta da un adeguato spirito critico, è la capacità di rispettare le regole, l’etica è la capacità di formulare idee e pensare a un orizzonte futuro, cioè, in poche parole, pensare autonomamente ciò che è bene. Ma come si sviluppa una coscienza etica, in grado di riconoscere il bene e ricercare la verità?
La parola chiave è dialogo. Mortari, guidandoci in un viaggio che attraversa i dialoghi platonici e tocca Socrate per poi approdare all’Etica Nicomachea di Aristotele, guarda al dialogo come allo strumento principe di cui il docente si dovrebbe servire per educare gli studenti all’etica e far capire loro che prima ancora di prendersi cura degli altri è necessario prendersi cura di sé e della propria anima. Solo così il politico sarà in grado di rivolgersi esclusivamente alle cose degne di amore (cioè, riprendendo Socrate, saggezza, verità e virtù), senza coltivare le quali muore la democrazia. Una lezione importante, che i bambini – non a caso! – non hanno alcun bisogno di imparare: sanno già, come ci racconta Mortari, che le cose degne di amore rispondono ai nomi di generosità, coraggio, rispetto, giustizia.
Ma non basta educare: la buona scuola, per essere tale, deve passare anche dalla comprensione della dimensione affettiva dello studente, affinché impari a controllare le proprie emozioni senza diventare schiavo delle passioni (è il cosiddetto Social emotional learning). Si impone dunque la necessità di formaresoprattutto coloro che andranno a insegnare, così che possano, prima di formare a loro volta, prendere coscienza di loro stessi e dare valore alle proprie specificità. La differenza che porta valore: questo è stato uno degli insegnamenti della seconda relatrice della mattinata, Adriana Cavarero, filosofa politica e docente all’Università degli Studi di Verona, che ha puntato il dito sul bisogno di iniziare ad attuare una vera e propria politica della differenza.
In un excursus che ha abbracciato Aristotele, Thomas Hobbes (ma in realtà tutto il giusnaturalismo) e la Rivoluzione francese fino alle lotte femministe degli anni ’60, Cavarero è riuscita a rendere l’idea di quanto la differenza abbia penalizzato la donna nel corso dei secoli, forgiando differenze gerarchiche esclusive che hanno consentito il perpetuarsi dell’ordine simbolico patriarcale di Aristotele. La donna, “animale domestico” in quanto essere irrazionale che non padroneggia il linguaggio (al pari degli schiavi), si oppone all’uomo, “animale politico”, stabilendo con lui un rapporto di inferiorizzazione, che solo con la Rivoluzione francese inizia a incrinarsi. Ma l’ordine simbolico è più forte della forma astratta e infatti ancora oggi, nonostante l’uguaglianza costituzionale uomo/donna, non è stata raggiunta la tanto sospirata uguaglianza sostanziale.
Un dato è centrale: uguaglianza e differenza sono poli in tensione, che necessitano di essere ben interpretati. L’uguaglianza formale, combattuta dalle politiche femministe degli anni ’70, porta infatti solo a una drastica omologazione degli individui, che non permette la valorizzazione della differenza sessuale. Parità di diritti non deve significare omologazione: secondo Cavarero, sul lungo periodo la politica dovrebbe porsi l’obiettivo di modificare l’ordine simbolico, puntando anche su quelle caratteristiche che fanno di una donna un individuo diverso, ma non per questo inferiore, dall’uomo. Insomma, donne: non fingete di essere uomini!
La giornata si è chiusa, nel pomeriggio, con l’appassionata lezione di Franco Farinelli, geografo e presidente dell’Associazione dei geografi italiani, che subito ci ha chiesto uno sforzo di astrazione, invitandoci a ridurre la faccia della Terra alla copia di una mappa, e non viceversa. I confini degli Stati, ci spiega, devono essere geometrici e per questo vengono impressi prima sulla carta e poi sul territorio; gli Stati così disegnati sono mappe che imprimono alla Terra la forma cartografica. Ma quando nasce la concezione di Stato come formazione geometrica?
In questo caso, la parola chiave è Modernità. Portando alla nostra attenzione le caratteristiche dello Stato moderno (che sono le stesse dell’estensione nella geometria euclidea, cioè continuità, omogeneità, isotropismo) e spiegando con estrema chiarezza alcune delle innovazioni che lo hanno contraddistinto (come la ferrovia, che diventerà il più potente agente di spazializzazione), Farinelli ci conduce al passaggio dalla Modernità alla globalizzazione, fenomeno che, secondo lui, nessuno è ancora riuscito a comprendere. La globalizzazione, che il docente ritiene abbia avuto inizio con lo sbarco sulla Luna nell’estate del 1969 (quando la Luna, per tutti noi, diventa un “pezzo” della Terra), cambia il mondo, spazzando via l’economia di vecchio stampo interamente basata sul tempo.
Il tempo, al giorno d’oggi, non ha più un’importanza così cruciale; Internet ha ridotto il tempo a quel milionesimo di secondo che intercorre tra un’operazione e l’altra in rete, azzerando, da un punto di vista funzionale, le differenze tra essere umano e macchina. Spazio e tempo sono ormai categorie residuali, governate da un livello superiore rappresentato dai flussi finanziari combinati in rete. E in questo mondo, che anche Mortari riconosce essere dominato dal modello bancario, Farinelli intravede una speranza, forse l’unica: spendere sul mercato la nostra capacità di manipolazione simbolica, cioè la nostra Cultura (il caso Brexit insegna che conta di più la differenza culturale dell’armatura spaziale), che dopo il crollo dei presupposti della civiltà occidentale stiamo dilapidando.
La buona politica deve essere fattiva, ma deve anche riacquisire la capacità di elaborare nuovi modelli, che valorizzino la nostra Cultura e costituiscano le fondamenta per costruire il futuro. E questo non potrà accadere finché politica e sapere non saranno tornati a essere un connubio inscindibile.

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