Ancora sul referendum


Il giornale onlione Il Post ci racconta cosa si dice sui giornali stranieri.

L’interpretazione più diffusa è quella che su cui stanno insistendo anche diversi editoriali in Italia e che cioè si sia trattato di una vittoria di Beppe Grillo, di Matteo Salvini e in generale dei “populisti” e che Renzi abbia “personalizzato” troppo il voto.

Il Wall Street Journal scrive ad esempio che «gli italiani hanno respinto i cambiamenti costituzionali sostenuti dal governo, spingendo il primo ministro Matteo Renzi ad annunciare le sue dimissioni e consegnando ai populisti la vittoria nel cuore d’Europa». Anche il New York Times cita «l’onda populista», la «rabbia anti-establishment» e riporta un tweet di Matteo Salvini in cui il segretario della Lega Nord dice “Viva Trump, viva Putin, viva la Le Pen”. Scrive poi che l’opposizione alle proposte del governo «centrista» di Renzi è venuta da quelle forze politiche che sono «scettiche con la globalizzazione e con l’apertura delle frontiere». Il New York Times dice infine che se si andasse ad elezioni anticipate, il 2017 sarebbe un anno fondamentale per la storia dell’Unione Europea: «Francia, Germania e Paesi Bassi andranno alle urne con forti candidati euroscettici e populisti in corsa».

Il Financial Times parla di «pesante sconfitta» e dice che il risultato «fa cadere l’Italia in una crisi politica e solleva timori di turbolenze nel suo sistema bancario». Dice anche che «la coalizione del No non era composta esclusivamente da populisti. Includeva anche altri ex primi ministri italiani come Mario Monti e Massimo D’Alema, così come una serie di giuristi di alto livello che hanno creduto che le riforme fossero mal realizzate e che concentrassero troppo potere nelle mani nell’esecutivo».

Il quotidiano spagnolo El País dice che Renzi, «che solo pochi mesi fa sembrava invincibile», ha commesso un errore di calcolo «attribuibile al suo eccesso di fiducia» e ha trasformato il referendum in un voto sulla sua leadership. El País scrive poi che i partiti di opposizione, «sempre in lotta tra loro, questa volta hanno saputo unirsi in un fronte comune». Il Guardian e la BBC parlano di «pesante» e «chiara» sconfitta. Il Guardian, in particolare, cita il tweet di Matteo Salvini su Trump e Le Pen («sufficiente a far venire un brivido lungo la schiena a qualsiasi democratico liberale») e ricorda che l’Italia sta affrontando una serie di problemi «che non erano tecnicamente sulla scheda elettorale»: la crisi dei migranti, una crisi bancaria non risolta, l’alta disoccupazione e un alto debito pubblico «con nessuna soluzione in vista». Il Guardian ricorda anche che gli oppositori alla riforma non erano solo Matteo Salvini e Beppe Grillo, ma parte dello stesso Partito Democratico e gli elettori di sinistra «che hanno sfidato il premier per tutta una serie di motivi».

Le Monde ricorda che Renzi aveva fatto della riforma una «questione personale» e che «è stato costretto ad ammettere il suo fallimento». Il quotidiano della sinistra francese Libération commenta che il risultato «punisce sia la sua persona che le sue politiche. Nonostante le promesse di trasformare il paese in pochi mesi e nonostante un elenco di riforme approvate, l’Italia è ancora impantanata nella crisi economica e nella disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno». Libération conclude riportando l’opinione di «diversi editorialisti della stampa italiana: “Il vento di destra che ha soffiato in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi mesi è arrivato in Italia”».

Il tedesco Die Welt ha un lungo articolo in cui racconta il discorso delle dimissioni di Renzi, Spiegel parla della disoccupazione e della crisi economica dell’Italia e cita, tra gli altri, Rossana Rossanda che spiega come per il No ci fosse gran parte della sinistra del paese

Tornando in Italia vi proponiamo l'editoriale di lunedi di Mario Calabresi, direttore di Repubblica che attribuisce buona parte della sconfitta del Sì alla decisione di Renzi di “trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso”, per lo meno nei primi mesi della campagna referendaria.

Un anno fa il premier ebbe la malaugurata idea di trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso, in una sorta di nuova incoronazione, sperando nel bis delle Europee del maggio 2014, non rendendosi conto che non esiste governo nelle democrazie occidentali che sopravviverebbe a un voto secco dopo mille giorni. Nemmeno Merkel ne uscirebbe con una vittoria. Guardate ai presidenti o ai premier che ci sono in giro, nessuno governa con un consenso superiore al 40 per cento. E a nessuno di loro viene in mente di sfidare la sorte permettendo alle opposizioni e ai malumori di sommarsi e di contarsi.

Il messaggio che è arrivato, seppur nella sua pluralità di significati, è chiaro e ha avuto la conseguenza di portare Renzi alle dimissioni. Un passo inevitabile visto il fatale combinato di un’affluenza altissima e di un No nettissimo. Renzi lo ha riconosciuto con un discorso di grande onestà e chiarezza, in cui non ha cercato scusanti e si è assunto la responsabilità della sconfitta. Il premier non poteva che lasciare Palazzo Chigi. Se non lo avesse fatto immediatamente sarebbe stato accusato di voler restare incollato alla poltrona e ogni uscita pubblica, dibattito o proposta politica sarebbero diventati un calvario.

La vittoria del No ha tantissimi padri, anche se ce ne sono alcuni che sono corsi ad intestarsela un minuto dopo la chiusura dei seggi, e mille motivazioni diverse. Oltre alla mobilitazione di chi ha votato per evitare ogni modifica alla Costituzione si sono messi insieme i voti del Movimento 5Stelle, della Lega, dell’area della destra populista e di una parte del mondo berlusconiano insieme a quelli di una parte importante del Pd, della sinistra anti Renzi e delle frange anti sistema. A questo, credo vada aggiunto un voto che non aveva alcun legame con il merito della riforma costituzionale e nemmeno con l’appartenenza a un’area politica ma era dettato dalla rabbia, dalla frustrazione e dal malcontento: voto di chi dice No alla disoccupazione, alla precarietà, all’incertezza e all’impoverimento, ma anche ai migranti e alle politiche dell’accoglienza

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