Perché votare sì - di Pietro Virtuani

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Ho deciso di scrivere questo testo per tre motivi: perché questa campagna referendaria è stata la cosa più importante e intensa che ho fatto in questi tre anni da Segretario provinciale del Partito democratico di Monza e Brianza; perché ho imparato tantissime cose, che vorrei riepilogare e raccogliere in un testo organico; e perché alcuni miei cari amici sono incerti o orientati a votare no, per cui ho voluto esprimere in forma scritta le mie ragioni, per raccontarle anche a loro.
Il testo non è venuto molto breve, per cui l’ho diviso in paragrafi, che qui riepilogo per facilitare la lettura.
1. Il contesto in cui siamo e l’atteggiamento in cui porsi
(dove si riepiloga velocemente cosa succede intorno
e ci si pone in guardia dai profeti di sventura)
2. La Storia della nostra Costituzione
(le tante cose che abbiamo imparato o ripassato, in sintesi)
3. Il cuore della riforma
(quello che c’è di importante da sapere)
4. Nel merito, pesi e contrappesi
(una esposizione che vuole essere sintetica e puntuale dei nodi principali)
5. I costi della politica, il valore della politica
(quello di cui parlano tutti)
6. I limiti, le priorità, il valore dell’uomo
(quello di cui parlano alcuni)
7. Il consenso alla riforma
(ancora sulla situazione intorno a noi)
8. Il nostro tempo e la prospettiva futura
(una valutazione personale)
1. IL CONTESTO IN CUI SIAMO E L’ATTEGGIAMENTO IN CUI PORSI
Il referendum si voterà a finanziaria aperta: approvata (si presume) alla Camera, da approvare al Senato. Questa legge di stabilità è quella che più di tutte ha provato a invertire la rotta della politica economica europea, prevedendo investimenti, misure di equità sociale, fondi per le emergenze che hanno colpito il nostro paese. Se, dopo il 4 dicembre, dovessimo andare incontro a una crisi politica con conseguente crisi della finanza pubblica, vedremo probabilmente anche arretrare molte delle politiche economiche più avanzate di questo governo. Non si cambia solo la legge di stabilità: il tema è invertire la rotta, lottare contro l’austerità che non ha risanato i conti pubblici. Non ci sarebbe più la forza politica per farlo. E probabilmente andremmo incontro anche all’incertezza di cosa fare con la legge elettorale, quando andare a votare, il serio rischio della vittoria delle forze populiste in Italia.
Ha ragione chi sostiene che sulla Costituzione ognuno fa una scelta di coscienza e nel merito del cambiamento proposto; ma non si può pensare che le proprie scelte siano “assolute” (prive di legame) rispetto al contesto in cui vengono prese. Ed è oggettivo che, se il referendum bocciasse questa riforma, le possibilità di modificare successivamente il nostro ordinamento appaiono davvero remote.
Non si tratta di “sostenere il cambiamento per il cambiamento”, ma di scegliere guardando il più onestamente possibile tutto il quadro, e non solo alcuni particolari. Gli esiti dei referendum avranno inoltre l’effetto di durare a lungo, come è giusto che sia quando il popolo si esprime. Immaginarsi che una vittoria del No apra a una nuova stagione costituente, in cui tutte le forze politiche con eguale maturità valutino una nuova riforma in maniera condivisa e legittimandosi tra di loro, il tutto senza la pressione interna di un paese che va impoverendosi e di un mondo che va chiudendosi, è velleitario. Come lo è immaginarsi che prossimamente non ci siano problemi finanziari, non ci siano conflitti e tensioni, e si possa ragionare tutti tranquillamente di Costituzione.
Infine, in un mondo in cui tutti sono tuttologi, tutti sanno tutto e tutti conoscono già quello che succederà dopo, mi sento di dire che l’atteggiamento giusto è proprio l’opposto: curiosità verso il nuovo e consapevolezza dei propri limiti. Ogni cambiamento richiede di essere testato, di essere conosciuto, richiede fasi di assestamento e messe a punto. Siamo nel campo delle scienze sociali: è un campo nel quale l’esito certo non esiste, ma esiste la ragionevole probabilità. E stiamo parlando della Costituzione: la legge che contiene principi e linee guida del nostro stare insieme come paese, da attuarsi poi successivamente attraverso la politica.
I profeti di sventura sanno già come andrà a finire. Noi invece vogliamo spiegare perché questa Riforma ha molte ragionevoli probabilità di migliorare concretamente il nostro sistema istituzionale. 
2. LA STORIA DELLA NOSTRA COSTITUZIONE 
Questa campagna referendaria ci ha permesso di studiare meglio come è nata la nostra Carta.
La nostra Costituzione è figlia di un doppio miracolo: quello di un paese che passa dalla monarchia alla Repubblica senza un atto violento (ma tramite un referendum), e quello di essere figlia di forze politiche diverse tra loro, che avevano sì combattuto insieme durante la Resistenza, ma che si trovavano nuovamente divise sullo scenario internazionale: la Costituzione è stata scritta lo stesso.
Ma i reciproci timori che la vittoria di una parte o dell’altra potesse portare il nostro paese o sotto la cortina di ferro o a diventare uno stato vassallo degli Stati Uniti, il timore diffuso di una riproposizione del fascismo, hanno portato i padri costituenti a trovare alla fine un assetto che delegasse la stabilità del sistema alla dialettica tra i Partiti politici, invece che a regole interne alla Costituzione.
A questo si aggiunge anche la particolare situazione politica che andava delineandosi nel nostro paese: i cattolici in un solo partito, “condannato” a governare sempre, e il più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale obbligato a stare all’opposizione dallo scenario internazionale, e tuttavia da lì a influire concretamente nelle scelte.
Ebbene, questo sistema che abbiamo ancora oggi, figlio di quei tempi, ha funzionato per molti anni: la storia del nostro dopoguerra è una storia gloriosa, nella quale un paese arretrato e agricolo diventa una potenza industriale, in cui l’economia cresce, in cui molte persone vedono migliorare sostanzialmente il proprio tenore di vita. Certo, l’Italia del boom economico non è stata priva di contraddizioni, come splendidamente si legge ne La Vita Agra di Bianciardi: ma quale età dell’uomo non è priva di ingiustizie e contraddizioni? E il nostro paese è anche il solo paese dell’Europa del sud a conoscere subito la democrazia, a differenza di Spagna, Portogallo e Grecia.
Quel sistema, dopo trent’anni è andato in crisi: perché i presupposti internazionali si indebolivano (il mondo andava incontro al disgelo tra i due blocchi), i motivi interni pure (il Partito Comunista andava recidendo i legami con l’Unione sovietica, e iniziavano i tentativi di coinvolgerlo nell’alveo del governo; i Partiti politici andavano perdendo la propria capacità di organizzare la vita politica).
Così, emerge nell’opinione pubblica sempre più urgente l’esigenza di riformare la seconda parte della Costituzione, per aumentare la stabilità del sistema, superare il bicameralismo paritario, ridurre il numero dei parlamentari. Dalla Commissione Bozzi del 1983, alla Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, dai programmi di quasi tutte le forze politiche che si sono candidate in tantissimi anni, alla stagione del maggioritario ovunque (con i suoi limiti e le sue contraddizioni), questo è stato il tema e questo non si è riusciti mai a portare a termine.
Il 4 dicembre abbiamo finalmente un’occasione.
3. IL CUORE DELLA RIFORMA
C’è un terzo miracolo che riguarda la nostra Carta: è la prima parte della Costituzione, sulla quale la riforma non interviene. I principi sui quali si fonda la Repubblica superavano l’orizzonte culturale del loro tempo, sono ancora attualissimi, molti ancora da concretizzare, rimangono il nostro faro guida. Le leggi che allargano i diritti, oggi, trovano il proprio fondamento in quei principi scritti settant’anni fa.
L’obiettivo della riforma è dare al nostro paese un assetto istituzionale coerente con una compiuta democrazia dell’alternanza, consono ai nostri tempi, e non più un assetto adatto a una “democrazia consociativa”, che ha dato grandi risultati nel secondo dopoguerra, ma non è più quello che ci serve nel mondo di oggi.
Il mezzo con cui raggiungere quell’obiettivo, il cuore della riforma, è un aggiornamento della seconda parte della Costituzione: superare il bicameralismo paritario, con una Camera che dà la fiducia al governo e approva le leggi, e un’altra che rappresenta le istituzioni territoriali; semplificare il nostro assetto, attraverso una riduzione degli enti e una definizione più precisa delle competenze di ciascuno.
La nostra Repubblica è parlamentare e rimane parlamentare.
4. NEL MERITO, I PESI E I CONTRAPPESI
1) Oggi il Parlamento si è svuotato della sua funzione legislativa, perché impegnato massimamente a votare fiducia al governo, decreti leggi, leggi delega; la Riforma vuole riportare effettivamente al Parlamento, e quindi ai rappresentanti dei cittadini, il potere legislativo. Una sola Camera per le leggi ordinarie e legata al governo dal rapporto fiduciario. Il governo non vede mutato il proprio potere;ottiene solo la possibilità di richiedere un voto “a data certa” per le leggi che ritiene essenziali, e di contro subisce il limite alla decretazione di urgenza, che oggi è diventato il sistema prevalente per fare le leggi.
I critici alla riforma pongono due obiezioni: le leggi sottoposte a passaggi multipli tra le camere sono poche, il bicameralismo non è un fattore di instabilità. Non è esatto: il Parlamento oggi, votando fiducia e decreti, non ha modo di rimandare indietro le leggi, e spesso una camera sceglie di rinunciare a fare modifiche perché se rimanda indietro la legge, nessuno ha idea di quando la legge infine sarà approvata, e se la legge è un decreto, spesso non c’è il tempo di farlo prima che il decreto scada (vale anche per il Presidente della Repubblica e il potere di firma). Inoltre, il nostro è l’unico paese in cui il governo ha due maggioranze a cui rivolgersi (quella della Camera e quella del Senato), spesso diverse tra loro. Questo è un fattore di instabilità, dal quale discendono i 63 governi diversi in 70 anni. E chi aggiunge che la stabilità discende dalla legge elettorale, dovrebbe tener presente che paesi come la Germania, la Spagna e l’Inghilterra hanno leggi elettorali molto diverse tra loro eppure i governi, con una sola camera a cui chiedere la fiducia, durano di più dei nostri.
E poi, quanti oggi difendono il bicameralismo perfetto, perché magari dicono che serve meditare bene sulle cose e due teste sono meglio di una (cosa opinabile), dove erano quando venivano preparati i programmi elettorali degli ultimi trent’anni, che chiedevano tutti questo superamento? Ritenere inefficiente la soluzione proposta dalla riforma è legittimo, riscoprire oggi le virtù del bicameralismo paritario appare un po’ affettato…
2) Il nuovo Senato rappresenta le autonomie territoriali: regioni e comuni.Avrà una competenza  legislativa bicamerale su poche leggi (Leggi costituzionali, leggi sulle forme di democrazia diretta, funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane, leggi sui rapporti tra Italia e Unione Europea e poco altro); avrà la funzione di trasmettere le istanze territoriali verso il centro dello Stato, di proporre modifiche alle leggi nel momento della loro discussione, di controllo sulle politiche pubbliche.
I critici ritengono che il Senato si poteva abolire del tutto, o che le funzioni che rimangono al Senato sono troppe per essere svolto come lavoro aggiuntivo per consiglieri regionali e sindaci: non sono d’accordo. Nessun paese delle nostre dimensioni è monocamerale, e avere in Parlamento anche la rappresentanza delle autonomie locali è una ricchezza, perché la Repubblica non è solo lo Stato centrale ma è anche le Regioni, le Città metropolitane e i comuni. Il nuovo Senato è una scommessa, ed è giusto dirlo: chi ha visto nella sfera di cristallo che sarà tutto perfetto o sarà tutto un disastro farebbe bene a guardare come funziona la vita umana. Ci sarà da concretizzare il suo funzionamento (ci sono già idee, bozze di regolamento), darsi un metodo, un regolamento, come bisogna fare ogni volta che si fa qualcosa di nuovo. Rimane che le competenze del Senato sono meno, che i consiglieri regionali che diventeranno senatori fanno parte di gruppi all’interno dei quali è possibile specializzarsi e suddividersi il lavoro, e che oggi è un metodo vincente approcciarsi ai problemi e individuare soluzioni lavorando su piani distinti; e per quanto riguarda i sindaci, è vero che si tratta di una carica monocratica, ma è anche vero che escluderli avrebbe avuto come conseguenza escludere l’Italia dei comuni dalla camera territoriale.
E rimane anche che già oggi molti sindaci e molti rappresentanti delle regioni vanno a Roma spesso per discutere i problemi del proprio territorio. Il nuovo Senato vuole rendere definito e trasparente tutto questo.
3) A fronte di un governo più stabile, si rafforzano gli organismi di garanzia, che non dovranno più essere appannaggio della sola maggioranza politica: il quorum minimo per l’elezione del Presidente della Repubblica si alza a 3/5 (oggi è la metà assoluta) e i giudici della Corte Costituzionale di elezione parlamentare, oggi eletti in seduta congiunta, sono divisi tra i due rami del Parlamento: 3 alla Camera e 2 al Senato.
4) E a fronte della richiesta di un coinvolgimento diretto dei cittadini, si istituisce il referendum propositivo, si aggiunge una seconda possibilità di referendum abrogativo con un quorum più basso (per chi raccoglie 800.000 firme e non solo 500.000) e si rende obbligatorio discutere le leggi di iniziativa popolare, per le quali oggi non c’è nessun obbligo (infatti non vengono discusse), a fronte di un innalzamento a 150.000 firme.
5) Rispetto alle Regioni, viene eliminata la “competenza legislativa concorrente” tra Stato e Regioni e vengono riportate in capo allo Stato molte competenze che nel 2001 erano passate alle Regioni; il sistema creato nel 2001 ha prodotto un paese più diseguale e moltissimi contenziosi di fronte alla Corte Costituzionale tra lo Stato e le Regione. Questo sistema viene superato. A fronte di una diminuzione dei propri poteri, le Regioni guadagnano rappresentanza nel Parlamento nazionale (attraverso il nuovo Senato appunto) e il nuovo articolo 116 sull’autonomia differenziata amplia le possibilità di richiedere “più autonomia su più materie” per quelle regioni che sono in grado di svolgerle e che hanno i bilanci in ordine.
I critici accusano la riforma di essere centralista: l’obiezione ha un senso, ma si ricordi che l’attuale sistema non ha funzionato, ha prodotto più sprechi e ineguaglianze nel nostro paese; e nel momento in cui si elimina la competenza concorrente, come si fa a lasciare la politica energetica, o quella sulle infrastrutture, in capo alle regioni?
Le regioni guadagnano rappresentanza nel Parlamento e quindi la possibilità di far sentire le proprie istanze durante il procedimento legislativo.
5. I COSTI DELLA POLITICA, IL VALORE DELLA POLITICA.
Qui i sostenitori del No si dividono: c’è chi dice che i costi sono stati ridotti troppo poco, e c’è chi dice che non si fa la Riforma della Costituzione per tagliare i costi della politica.
Innanzitutto, la riforma elimina 315 indennità di senatori, riduce gli stipendi ai consiglieri regionali, elimina il finanziamento ai gruppi politici regionali, cancella il CNEL e le province. Quanto vale tutto questo? Abbiamo sentito le cifre più disparate da chi ha provato a fare i conti; senza addentrarci a dire chi ha ragione, un risparmio c’è, è oggettivo. Poi sappiamo tutti (o quasi) che non saranno i tagli alla politica a risanare i conti pubblici, ma sentiamo tutti i giorni come questo sia un tema prioritario per molti cittadini.
Credo che una democrazia più efficiente possa non solo produrre molti risparmi grazie a stabilità, leggi migliori e sistema più snello, ma possa soprattutto riguadagnare autorevolezza nell’opinione pubblica. E quindi, una politica più autorevole e più rispettata è una politica che recupera la sua dignità, e che non verrà valutata più solo per quanto costa (se qualcosa è percepito come inutile, il suo costo sarà sempre percepito come uno spreco), ma per quello che è in grado di fare e realizzare.
6. I LIMITI, LE PRIORITÀ, IL VALORE DELL’UOMO
Come in qualsiasi cosa, i limiti ci sono.
Molti avrebbero voluto un cambiamento più radicale; alcuni avrebbero valutato volentieri una ipotesi semipresidenzialista, altri parlano del modello tedesco del Bundesrat (che rappresenta i governi dei länder e non i consigli), altri si chiedono perché mantenere i 5 senatori di nomina del Presidente della Repubblica che durano in carica quanto il Presidente; perché non sono state abolite le Regioni a statuto speciale; e si potrebbe andare avanti all’infinito…
La riforma persegue il superamento del bicameralismo paritario e il riequilibrio delle competenze tra Stato e Regioni, un rafforzamento delle garanzie e dei contrappesi, il contenimento dei costi, nuove forme di partecipazione dei cittadini. Sono fini largamente condivisi con soluzioni che più o meno riescono a perseguirli. Il nodo è questo.
Inoltre, abbiamo sempre sostenuto che la crisi sociale e la crisi democratica si tengono. Di fronte a povertà, precarietà, disoccupazione, impoverimento, disuguaglianze, la Riforma costituzionale era quella cosa di cui avevamo assoluta necessità? Per la verità sì. Innanzitutto, non è l’unica cosa che in questa legislatura si è fatto: dagli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato, alla legge per “il dopo di noi”, alla prima misura universale contro la povertà in Italia, alle unioni civili, alla legge contro il capolarato, l’azione del governo è stata ampia e con ben presente l’agenda sociale. Servono misure più radicali? Penso di sì, ma questo non deve non farci vedere quanto di buono è stato fatto.
Tuttavia, anche le istituzioni deputate a rispondere ai bisogni dei cittadini sono parte di questa sfida: questa legislatura nasce anche su questo mandato, quello di riformare il nostro ordinamento dopo trent’anni di tentativi; istituzioni più efficaci e una sovranità popolare che si riavvicina ai cittadini oggi, potranno domani essere più tempestive e radicali per realizzare quei cambiamenti che servono al nostro paese.
Giustamente, ci si chiede quanto incida la qualità dell’assetto istituzionale e la qualità delle persone nelle istituzioni nel funzionamento del sistema. Ovviamente, il migliore degli assetti istituzionali possibile e impossibile funzionerebbe male e produrrebbe danno se pieno di incapaci e corrotti; come il peggiore degli assetti istituzionali possibile e impossibile qualcosa di buono realizzerebbe se in mano a geni specchiati e autorevoli. Le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini; ma come i cittadini si devono impegnare a scegliere politici sempre migliori, sia per qualità sia per onestà, così dobbiamo dotarci di istituzioni migliori. Servono entrambe le cose.
7. IL CONSENSO ALLA RIFORMA
Tante forze politiche hanno dichiarato il proprio no. Nell’ultima votazione in Parlamento, solo le forze di maggioranza hanno votato la riforma; si va al referendum perché quelle stesse forze che hanno votato la riforma, consapevoli della necessità di avere un consenso vero nel paese per cambiare la Costituzione, hanno raccolto le firme per indire il referendum. All’opposizione, 5stelle e Lega hanno detto di no subito per ragioni pregiudiziali, Forza Italia ha votato questa riforma all’inizio e ha smesso perché contraria all’elezione di Mattarella a Presidente della Repubblica (che evidentemente non c’entra con la riforma).
Non è una riforma pertanto frutto della maggioranza del governo: è una riforma che parte dalle conclusioni del documento “Per una democrazia migliore. Relazione finale e documentazione”, prodotto dalla commissione di 42 accademici nominata all’inizio del Governo Letta, largamente inclusiva di opinioni e culture diverse; è una riforma che ha attraversato 6 votazioni parlamentari, venendo arricchita di oltre 150 emendamenti. Pertanto, un prodotto in larga misura parlamentare.
Oggi a sostenere il sì ci sono i partiti di maggioranza, in primis il Partito democratico, e numerosi comitati diversi: i comitati “Basta un sì”, civici e vicini al PD; i comitati di “Sinistra per il Sì”, che testimoniano le ragioni della sinistra in questa riforma; i comitati “Liberi di dire sì” e altri ancora, di orientamento moderato, cattolico e liberale. Sono rappresentativi delle culture politiche italiane più importanti e nobili. Non ci sono i fascisti per il sì, i monarchici per il sì, gli estremisti vari per il sì, e così via…
Molti esponenti figli di quelle nobili culture politiche votano No, legittimamente. Alcune persone con cui ho condiviso idee e battaglie votano No, a loro continuerà ad andare la mia stima. La scelta sulla Costituzione non è mai banale; e le scelte importanti sono quelle che dividono. Le scelte superflue non dividono nessuno, mettono d’accordo tutti. Importante, responsabilità di tutti, è ricordarsi che dopo il 4 dicembre, c’è il 5, il 6, il 7; vada come vada il referendum ci sarà molto ancora da fare insieme.
8. IL NOSTRO TEMPO E LA PROSPETTIVA FUTURA
È la debolezza e non la forza del potere democratico a produrre l’autoritarismo.
Noi oggi viviamo un tempo nel quale il rispetto verso politica e istituzioni è ai minimi storici, moltissimi cittadini non vanno più a votare, in tutte le democrazie occidentali prendono piede forze che chiamiamo “populiste”, che hanno in mente un’altra forma di democrazia nel migliore dei casi, un altra forma di regime in altri.
Tra i numerosi conflitti di cui vive la nostra società (senza dare alla parola “conflitto” una connotazione necessariamente negativa: il conflitto è il sale della politica e della democrazia), oggi il più dirimente è quello tra democrazia e populismo. Siamo arrivati qui perché negli ultimi decenni la forza del potere democratico è andata via via erodendosi, dimostrando sempre più i propri limiti a incidere nei processi e cambiare davvero la vita delle persone.
Riformare l’assetto del nostro Stato allora diventa, sulla prospettiva storica e su quella della geopolitica, dimostrare che la Democrazia è in grado di autoriformarsi, per riconnettere il “tempo della politica” al “tempo della vita”. Una compiuta democrazia dell’alternanza, con governi più stabili, un Parlamento più funzionante, garanzie più forti e nuove forme di partecipazione; nella quale chi viene eletto ha la possibilità di portare avanti il suo programma nel rispetto dei diritti e della Costituzione; di avere davanti a sé quell’orizzonte temporale che consente di tentare quei cambiamenti strutturali che servono a un paese come il nostro; di essere valutato dai cittadini per quello che ha fatto e non ha fatto, e di conseguenza di venir rivoltato o meno.
Se la democrazia è in grado di cambiare, la democrazia è in grado di proseguire. Altrimenti? Altrimenti io non penso che se vince il No il 5 dicembre succeda l’apocalisse, ma non credo che l’attuale sistema istituzionale improvvisamente torni a funzionare come cinquant’anni fa, e la democrazia e la politica risalgano improvvisamente la china. Penso che avremo perso una grandissima occasione e che la pressione dei populismi, il disprezzo verso le istituzioni e la politica, la frustrazione e la rabbia dei cittadini, aumenteranno ancora, rendendo così ancora più difficile realizzare il cambiamento che vorremmo.
Se vince il Sì invece, non andrà tutto a posto improvvisamente, come per miracolo; ma la politica e le istituzioni cominceranno una nuova stagione di cambiamenti ed evoluzioni, potranno effettivamente funzionare meglio; la politica potrà tornare ad avere un ruolo e a portare avanti il paese, scegliendo attraverso le elezioni quale tra le diverse strade prendere, come diverse sono le forze politiche, e come è giusto che sia in democrazia; ma senza più stare tutti fermi, o muoversi poco. Per rispondere ai bisogni delle persone. E non è affatto poco.

Pietro Virtuani Segretario Provinciale Monza e Brianza 

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