Come miele per le api

Dopo aver inseguito la vocazione maggioritaria, il Partito Democratico si è trovato, nel giro di un anno nella posizione di dover porre un’argine ai flussi migratori che migrano nella sua direzione.
L’enorme concentrazione di potere attualmente nelle sue disponibilità ha l’effetto del miele con le api. Le attira tutte nel circondario.
E il PD rischia di attirare a se fuoriusciti da ogni partito, attirati dalla nuova sorgente del potere, e naturalmente da chi avrà la possibilità di far girare economie, predisporre affari, ardire favoritismi.
Adesso che il Pd ha assunto una nuova pelle, gli eredi dei “comunisti” fanno meno ribrezzo di un tempo ad una classe politica una volta prostrata verso la direzione del centro destra, nel nome di un trasformismo che è il metro dell’identità di una certa classe politica.
In una tradizione che si ripete da sempre, se già nei Quaderni del carcere Gramsci parlava dell’importanza del trasformismo nella riuscita dell’Unità d’Italia, come ricorda un’articolo di Alberto Burgio per il Manifesto:
Attra­verso il tra­sfor­mi­smo – scrive – i «mode­rati» gui­dati da Cavour «dires­sero» i demo­cra­tici di Maz­zini e Gari­baldi, impri­mendo al Risor­gi­mento una cifra oli­gar­chica, con­ser­va­trice e anti­po­po­lare. Anche dopo il 1870 la parte mode­rata con­ti­nuò a diri­gere il Par­tito d’Azione mediante il tra­sfor­mi­smo, che per que­sto Gram­sci con­si­dera «un aspetto della fun­zione di domi­nio», oltre che «una forma della rivo­lu­zione pas­siva». In sostanza, la classe diri­gente ita­liana venne ela­bo­rata «nei qua­dri fis­sati dai mode­rati» anche per mezzo dell’«assorbimento degli ele­menti attivi» pro­ve­nienti dalle classi nemi­che. Le quali furono così «deca­pi­tate» e per lungo tempo «annichilite».
Da un punto di vista strettamente politico il trasformismo è endemico alla natura stessa del potere, tanto da apparire inestirpabile nella sua natura, e nella storia stessa dell’Italia. E offre un notevole supporto per chi tale potere lo detiene.
Per il governo Renzi è fonte di stabilità e garanzia di possibile durata, che consente di far fronte al crollo del patto del Nazareno e ad arginare le dissidenze interne, sempre più marginali. Ma è una mossa che può avere il fiato corto, necessario a durare il tempo di una stagione politica, ma tale da annacquare tutte le pretese di rottamazione che sono lo slogan e l’orizzonte propagandato da Renzi stesso.
Matteo Renzi sa bene che la posizione di cui gode è figlia non solo delle sue indubbie capacità strategiche e politiche, ma anche della credibilità di un partito (non granitica, in effetti, ma decente, specie se confrontata con tutto il resto) costruita negli anni da amministratori locali capaci, e da una attenzione alla questione morale che è sempre stata centrale al partito, come retaggio della sua stessa storia.
Imbarcare chiunque (ma proprio chiunque) per costruire la base del proprio consenso può essere una mossa buona per una stagione, ma può essere anche la radice per lo smantellamento definitivo di una base elettorale che non avrà più quell'orizzonte ideale al quale riferirsi.
La mancanza di alternative sta costruendo un partito che non è più tale, e che diviene piuttosto un aggregatore di anime diverse, alcune delle quali molto discutibili. Si avvia nella direzione di perdere la sua anima, nel tentativo di raccoglierle tutte. 
Cogliere il senso di questo pericolo è fondamentale per difendere il ruolo del Partito Democratico che verrà. 

L’unica alternativa possibile a tutto sarebbe la costruzione di un sistema bipolare che in Italia stenta a costruirsi davvero, soffocato tra derive estremiste e leadership che possono definirsi puramente effimere.
E così quelle che erano le intenzioni di un sistema maggioritario, si stanno trasformando nella costruzione di un grande centro. 
 Ed è questo il rischio più grande per il Partito Democratico. Un rischio da evitare.

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