Verso dove si muove il mercato del lavoro. Il modello tedesco.



Il modello tedesco sul lavoro, indicato da Matteo Renzi come quello da imitare, da molti punti di vista è una storia di successo indiscutibile. Con un mix di alta flessibilità, efficienti servizi all’impiego e regole che obbligano chi vuole il sussidio ad accettare ogni lavoro, dal 2004 al 2013 il tasso di disoccupazione della Germania è diminuito dal 10,5% al 5,3%. E soprattutto l’occupazione complessiva è aumentata per otto anni consecutivi, a quota 42 milioni di unità.

L’altra faccia della medaglia del Jobwunder (miracolo occupazionale) tedesco generato dalle riforme del 2003‐2005 del cancelliere socialdemocratico Schroeder, però, è la forte segmentazione del mercato del lavoro, con ben 5 milioni di persone che devono vivere svolgendo uno o più «mini o midi job», lavori instabili che per legge sono pagati al massimo 450 euro al mese, su cui le aziende in pratica non pagano tasse e contributi.

Dall’altro, c’è la quasi trasformazione del welfare (una prestazione concessa perché considerata un diritto) in workfare: per continuare a godere dell’indennità di disoccupazione (poco più di 300 euro al mese per un single più un contributo all’affitto che può arrivare sempre fino a 300 euro) i disoccupati devono accettare letteralmente qualsiasi impiego, talvolta anche a retribuzione zero.

Di recente hanno destato scalpore le 500 «occasioni di lavoro» a retribuzione zero o un euro l’ora (nelle mense popolari di quartiere) offerti dalla socialdemocratica città libera di Amburgo. Non è un caso che nell’accordo per la formazione della Grosse Koalition con la Cdu, la Spd abbia chiesto e ottenuto di stabilire per legge un salario minimo orario di 8,5 euro lordi.

Per valutare correttamente i grandi risultati delle cinque riforme varate da Peter Hartz (presidente della Commissione "Servizi moderni al mercato del lavoro" istituita da Schroeder), tuttavia, bisogna ricordare le specificità del sistema tedesco.
• Un’economia fondata su una potente industria basata sulle esportazioni<
• un sistema formativo professionale che agevola moltissimo il passaggio dalla scuola al lavoro. E
soprattutto, il compiuto passaggio a un sistema contrattuale assolutamente decentrato, azienda per
azienda.
Questo sistema ha permesso ‐ nelle imprese e nei territori più in crisi la «moderazione salariale» con forti tagli del costo del lavoro, favorendo la competitività.
Infine, bisogna ricordare pur sempre che per gli «ammortizzatori sociali» le riforme Hartz hanno stabilito prestazioni che in Italia sarebbero un miraggio: per raggiungere quei livelli bisognerebbe spendere molto di più di quello che spendiamo oggi.
Le riforme, complessivamente, hanno costruito un sistema di sussidi di disoccupazione universali, estesi cioè a tutti, purché si dimostri di essere in ricerca attiva di lavoro.
I disoccupati vengono sollecitati con proposte di lavoro che, se non accettate, decurtano progressivamente l’indennità.
L’indennità è maggiore, e proporzionata allo stipendio precedente, per chi aveva un posto di lavoro e l’ha perduto. Dopo due anni si riduce progressivamente.
Esiste anche un reddito di cittadinanza, con contributi per la casa, la famiglia e i figli e un’assicurazione sanitaria, il cosiddetto Arbeitlosengeld II.
Anche in questo caso bisogna rispettare una serie di precisi obblighi. Oltre a buoni per la formazione, job center e agenzie interinali  ‐  con misure mirate sugli over‐50 anni espulsi dal lavoro  ‐ Hartz ha riorganizzato le tipologie flessibili di contratto (part‐time, stagionali, a termine). E soprattutto potenziato i cosiddetti «mini job», contratti di lavoro precari che all’azienda costano nulla. E i «midi job» da 450 euro al mese, che danno diritto a una pensione, ancorché poco più che simbolica.

Marco Addivinola, Segreteria Provinciale MB, Delega LAVORO

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