Bersani: "E poi c'è quello che non posso dire"


Questo fine settimana si presenta all'insegna del maltempo. Il caldo non previsto delle prime settimane di marzo è già alle spalle.

Se siete impossibilitati ad effettuare la classica gita primaverile fuori porta, o se avete avuto una settimana impegnativa cerchiamo di farvi rilassare con un post leggero.

Vi proponiamo l'intervista rilasciata da Pierluigi Bersani al periodico Vanity Fair. Quello che ne esce, è un Bersani intimo in vena di confidenze. Buona Lettura. 

 DoppiaM


Prego, il segretario la aspetta». Largo Nazareno, Roma, sede del Pd. Per essere l'ufficio del capo, è sobrio: pochi arredi, pareti spoglie. Pierluigi Bersani ha l'aria stanca. Alto più di come lo facevo, mi stringe la mano e si lascia andare sulla poltrona. 

Quando ha accettato di incontrarci, il governo Monti sembrava deciso a non ascoltare le sue obiezioni alla parte di riforma del lavoro che disciplina il licenziamento per motivi economici. Questa, dunque, rischiava di essere un'intervista con un uomo all'angolo: il segretario del Pd che ha rinunciato alle elezioni (probabilmente vittoriose) dopo la fine del governo Berlusconi, aprendo le porte ai tecnici e allo smantellamento dell'articolo 18. Ma poche ore prima di vederci, Bersani ha incassato un successo. Monti e il ministro Fomero gli hanno dato ascolto, introducendo nel testo del decreto, ora all'esame del Parlamento, la possibilità di reintegro nel posto di lavoro quando il licenziamento si basa sumotivi economici «manifestamente insussistenti».

Bersani, come sta? C'è chi non vorrebbe essere al suo posto, di questi tempi. 
«Sono difficoltà previste. Lo dissi quando ci fu l'addio di Berlusconi: non saranno rose e fiori, è il battesimo del Pd. Sapevo che ci sarebbe toccata la parte di chi cerca di riparare l'emergenza del Paese, oltretutto in una situazione in cui non si può parlare con il manovratore - non va disturbato, ha troppe curve davanti - e lo si fa con il bigliettaio. Sapevo che poi, in strada, avrebbero fermato me. Appena posso vado a fare la spesa al super, la pesantezza di questo momento la sento».

La gente le chiederà conto dell'operato del governo. 
«Eccome. La settimana scorsa a un comizio mi si avvicinano tre con aria decisa: "Ma noi che lavoriamo nell'edilizia, a 67 anni andiamo su un ponteggio?". Ho risposto: "Certo che no, ci sono i lavori usuranti, si risolverà». E loro: "E se non si risolve?". È una cosa che, quando vai a casa, non ti senti molto bene».

Sulla riforma del lavoro Monti e Fornero sembravano decisi ad andare per la loro strada, senza compromessi. Ha mai pensato: e ora che cosa faccio? 
«No, seguo la lezione di Berlinguer: quando non sai che fare, resta fedele aivalori della tua gioventù. Per me un posto di lavoro non si può ridurre a qualcosa da monetizzare e basta, e quindi ritengo importante che in caso dilicenziamento per motivi economici ci sia un giudice che decida per l'indennizzo o per il reintegro. E poi non sento tutto sulle mie spalle, ho un partito intorno, e sul simbolo non vorrò mai il mio nome, perché non credo allapersonalizzazione della politica. Preferisco gli sport di squadra».

Quali praticava, da ragazzo? 
«Ho tentato, con scarsissimo successo, il pallone. Poi, il mio sport è diventata la politica, un campo dove, invece della palla, ci si scambiano le idee».
...

Le sue famose metafore imitate da Crozza - «Non stiamo mica qui a pettinar le bambole» - sanno di marketing. 
«È un linguaggio che ho studiato. Mica parlavo così, quando avevo 25 anni».

Come parlava? 
«Filosofese. Ma a forza di scarpinare tra i paesi di montagna - vengo da Bettola ho capito che uno deve stare al di sotto delle sue solennità. Le metafore sono un modo democratico per tradurre in modo accessibile un concetto complesso».

È vero che molte se le inventa? 
«Si, ma ormai mi confondo. Poi ce ne sono tante che in Tv non posso dire. Quelle in dialetto di mia nonna, bracciante e sarta: per spiegare che di una cosa ce n'è tanta, diceva: "Ce n'è abbastanza da fare l'orlo al Po". E quelle un po' hard».

Metafore hard? Me ne dica una. 
«Non posso. Ne avrei una per descrivere le sette ore e mezzo di incontro con Monti sull'articolo 18, ma non si può».

Era spiritoso anche da giovane? 
«Più di quanto sembrassi: appena mi parlavi veniva fuori la mia natura da paese».

Piaceva alle ragazze? 
«Grossi problemi non ne ricordo. Piacevo, ma senza esagerare».

Ancora oggi piace. 
«Mi fa molto molto piacere. Una volta Sgarbi ha detto: "Bersani secondo me non si ricorda neanche di essere pelato". Aveva proprio ragione».

Quando torna a Bettola, com'è accolto? 
«Sono ancora il figlio di Bersani, il meccanico, un'autorità, altro che ministro».

Suo padre l'ha vista al governo? 
«Sì, è morto dieci anni fa. Ma non si dava certo delle arie. Siamo gente sobria noi».

Da figlio di meccanico a ministro e segretario di partito: lei è anche ambizioso. 
«No, è la politica che è sempre stata una passionaccia. Ho fatto tutta la gavetta. Ma non avrei mai pensato di arrivare dove sono arrivato».

E dove pensava di arrivare? 
«Non ci pensavo. A 19 anni, quando mi sono iscritto a Filosofia, non avevo in testa niente. Ho scelto liberamente perché ero il secondogenito, tutte le aspettative erano sul primo, che ha fatto il medico».

Invece ricco e famoso è diventato lei. 
«Ricco non direi: con le regole che avevamo nel Pci, il mio stipendio era equiparato a quello dei metalmeccanici. Poi le cose sono cambiate, ho avuto stipendi più che buoni, ma tra mantenimento a Roma e contributi al partito ce n'era giusto per fare le figlie e mantenerle più che bene».

Non si è comprato neanche una casa? 
«No, la casa di famiglia è di mio suocero. Di mio ho solo l'appartamentino a Bettola dove vivevano i miei».

E sua moglie fa la farmacista. 
«Dipendente, ancora oggi».

Quando vi siete conosciuti? 
«Avevo 17 anni, è del mio paese».

State insieme da più di quaranta. 
«Ha avuto tanta pazienza. Ci vediamo una volta la settimana».

Le pesa questo nomadismo? 
«Ci sono abituato, ma è la cosa più pesante. Quando vedo i colleghi che all'una vanno a casa a mangiare in famiglia, mi girano un attimo».

La sua famiglia non l'ha mai seguita: che cosa fa la sera a Roma? 
«Se non lavoro, cerco di respirare tra me e me: la solitudine, facendo questo mestiere, è ciò che ti manca di più».

Mangia al ristorante? 
«Se sono solo mi faccio da mangiare io, mi sono sempre cucinato cose. Mica elaborate eh, da soli non ne vale la pena».

Quando ha preoccupazioni legate al lavoro, con chi si sfoga? 
«Se sono in famiglia, di queste cose non parlo proprio. E di carattere non sono ansioso. Ho sempre dormito la notte».

E che sogni fa? 
«Se li faccio, non me lí ricordo».


Leggi l'intervista completa sul sito del PD Nazionale

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