L'Aquila, un anno dopo

Ad un anno dal terremoto, pubblichiamo sul blog un articolo di Giustino Parisse, caporedattore del quotidiano Il Centro.


Sono le 22 quando inizia il viaggio nei luoghi vecchi e nuovi dell’Aquila.
E’ una notte qualunque. Di un giorno qualunque. Sul finire dell’anno primo del terremoto. Non ci sono più i paesi, non c’è più una città. Nel buio le luci ti indicano una meta. Ma non sai, quando ci arrivi, se hai trovato la vita oppure la tristezza dell’abbandono e del vuoto lasciati dalla paura di trenta secondi da incubo.
Alla fine del giro ti accorgi che non c’è molta differenza fra i luoghi veri frantumati dalla scossa e i luoghi finti ricostruiti in pochi mesi per dare un tetto ai fuggiaschi. Il silenzio è lo stesso. Inquietante quello che circonda gli alloggi del cosiddetto piano Case; spettrale e tragico quello che trovi fra edifici crollati, feriti e ingessati.
Il viaggio parte da Onna. Esco dalla mia casetta di legno. La notte è stellata, fa freddo, quasi come quella notte. L’ultima notte. Il villaggio si è ormai acquietato. Si ode solo il lamento dei cani che abbaiano alla luna. All’incrocio con la statale 17, ci sono le macchine della polizia. Mi faranno da scorta lungo percorsi che sembrano gli stessi però all’improvviso cambiano, prendono altre direzioni. I posti della comunità si sono moltiplicati. Ma sono come spariti, indistinti. Tutti uguali. Lì, dentro quei caseggiati, potrebbe esserci chiunque, quasi mai è il tuo vicino di casa, quello dell’anno prima del terremoto.
Con me ci sono il capo delle Volanti della polizia, Paolo Pitzalis e altri due dirigenti Patrizio Cardelli e Gianfranco Giuliani. Patrizio è stato forse il primo a dare attraverso i canali ufficiali la notizia della scossa. Alle 3,32 era su una Volante. Stava salendo verso il santuario di Roio. Il boato, l’urlo della terra tremante. La macchina sbanda. Dal microfono della radio di servizio un grido: «Forte scossa, crolli a Roio». Quella frase è incisa su un nastro, come tutte quelle di quella notte infernale. E’ la cronaca che diventa storia e la storia è ancora lì, davanti ai nostri occhi.
A Paganica 2 (così l’hanno chiamata tanto per evitare confusioni con la Paganica vera) la luce delle lampade che rischiarano le strade sbatte sugli occhi. Scendo dalla mia macchina per vedere meglio e ascoltare il respiro della vita. Ma non si sente niente. In giro non c’è nessuno. E’ come se quelle casette fossero blindate, nemmeno il rimbalzo dell’audio di qualche apparecchio televisivo. Siamo a Paganica ma potremmo stare a Bazzano, Preturo, Coppito, Camarda. Il piano Case è questo: un grande dormitorio. Chiedo alla “scorta” quali sono gli interventi più richiesti dagli inquilini degli enormi palazzoni poggiati su piastre antisismiche. La risposta mi sorprende: sono i rumori che quelli del piano di sopra fanno disturbando quelli del piano di sotto. In case in cui ci si deve solo dormire non sono ammesse distrazioni. Andiamo verso Paganica, quella che conoscevo fino a 12 mesi fa.
Entriamo nella piazza. Dalla fontana sgorga l’acqua, è l’unico suono che ti ricorda che lì c’è stata vita. Per secoli. Il bar Fashion café è chiuso. Sulla vetrina un manifesto che annunciava un concerto degli “Amici” per il 12 aprile 2009. Quel giorno non c’è mai stato, saltato a piè pari: era iniziato il tempo del terremoto.
Ci avviamo verso via Duca degli Abruzzi. Gli edifici sono stati quasi tutti messi in sicurezza. Per fortuna non ci sono le enormi gabbie nere che tutti hanno visto all’Aquila. Diciamo che è una “ ingessatura” un po’ più elegante. Si ode in lontananza un suono prima soffocato e poi sempre più chiaro. E’ la banda del paese che sta provando un “pezzo” nella sala civica. Quella marcetta si diffonde per vicoli chiusi, sbarrati, intasati dalle macerie. «Sembra la scena di un film di Fellini» mi fa notare Pitzalis. E in effetti tutto appare così incredibile da essere vero. Tragicamente vero.
C’è una porta aperta. Uno degli agenti entra per un attimo. Dentro trova spuntoni di ferro che sono stati infilati dall’esterno. Servono a non far crollare quello che è rimasto.

Io sono con la polizia, ma ho l’impressione che se fra due giorni ci torno da solo, lì, a Paganica, potrei entrare ovunque, come hanno fatto i tanti sciacalli che ai terremotati hanno rubato anche l’anima. L’agente richiude la porta e lo fa come se lo facesse a casa sua, consapevole però che lì dentro le persone ci torneranno fra tanti anni.
Giriamo ancora per qualche vicolo. Colpiscono i particolari. Nei centri storici che il terremoto ha distrutto, sono i portali di pietra a raccontarti del tempo che fu. E’ lì che ci sono scolpite le date, i simboli delle famiglie, i segni della religiosità popolare. E quando li inquadri con la luce della lampada è come se li separassi dal contesto. Intorno ci sono le macerie, ma loro sono lì. Generazioni di paganichesi li hanno visti e se la ricostruzione sarà fatta bene altre generazioni continueranno a passarci davanti, magari a guardarli distrattamente. Ma saranno il segno che il terremoto non ha cancellato la storia. E’ per questo che vanno difesi e tutelati. Purtroppo, mi confermano i miei accompagnatori, molti “materiali lapidei” sono spariti soprattutto nella confusione dei primi giorni dopo la scossa. Mentre si piangevano le vittime, c’ era chi pensava ad accaparrarsi qualche pezzo di pietra. Che strana e assurda umanità.
A Bazzano, quello vero, c’è un cane che abbaia. La sua cuccia è a due passi dalla chiesa di Santa Giusta. Ci “arrampichiamo” verso il cuore dell’abitato. Di Bazzano nelle cronache dell’anno primo del terrenoto si è parlato poco. Ma la distruzione, nella parte alta, è quasi totale.
Ci infiliamo in via del Meriggio e arriviamo a piazza delle Sirene. Doveva essere un posto bellissimo, soprattutto nelle assolate mattine di primavera. C’è un passaggio ad arco scavato nella roccia. In un angolo che sembrava dipinto da un artista, una scala formava una “elle”. Ora è spezzato, piegato, paurosamente in bilico. Mi ricorda quell’angolo della casa di Onna finito in polvere trascinandosi via mio padre e i miei figli.
Alle 23,30 siamo a piazza Duomo, all’Aquila. Due tocchi di campana si diffondono nell’aria. Partono dalla chiesa delle Anime Sante. Ma allora, mi dico, le campane suonano ancora. Non tutte però. Quelle della cattedrale sono ancora poggiate a terra. A mezzanotte, girando la città, ti rendi conto meglio di come è ridotto oggi il capoluogo d’Abruzzo. Da Collemaggio, andando su su verso il centro, non si incontra anima viva. Ai varchi d’accesso ci sono i militari. Dopo una certa ora c’è il coprifuoco, non si passa. Le fontane grandi di piazza Duomo sono mute come tutto il resto. La fontanella piccola al centro invece fa il suo dovere. L’acqua e le campane, le fontane e le chiese: L’Aquila c’è direbbe un cronista sportivo che si esalta alle vittorie di Valentino Rossi.
L’Aquila c’è ma adesso le mancano la benzina e persino le ruote. In via Sassa che fu il luogo della vita notturna, le insegne dei locali mi ricordano mille polemiche. Stanotte non c’è chiasso. Non ci sono bottiglie sparse qua e là. Non ci sono angoli dove fare i bisogni. Semplicemente non c’è la città.
Ci avviamo verso la periferia. Solo in viale della Croce Rossa, dove si sono spostati alcuni locali, si notano i segni che il popolo della notte non si vuole arrendere e si arrangia come può.
Una lunga fila di auto tratteggia il lato sinistro, da dopo lo stadio fino a via Vicentini. Da lì in un attimo si arriva nel quartiere di Santa Barbara e subito dopo a Pettino. Incrociamo un’a ltra Volante della polizia. Gli agenti notano un camion fermo in mezzo alla strada con le luci accese. In due minuti lo passano ai raggi x: nessun sospetto, l’autista ha solo dimenticato di spegnere i fari. A Pettino i controlli sono stati rafforzati. Ecco via Colombo Andreassi: la strada è ampia, i palazzi a un primo sguardo non sembrano messi male. Ma è solo un’impressione. La realtà è ben diversa. Saltando da una finestra all’altra e sfondando le porte gli sciacalli, proprio qui, in via Andreassi, hanno fatto man bassa di oggetti preziosi e di tutto ciò che hanno potuto portare via. Una macchina che sta arrivando verso di noi all’improvviso fa marcia indietro e si allontana. Alle volanti bastano duecento metri per raggiungerla e fermarla. Dentro ci sono due giovani che hanno un comportamneto un po’ sospetto e non sanno dare una spiegazione convincente alla loro presenza in quella zona a quell’ora. Vengono identificati e tenuti d’occhio per un po’.
L’ultima tappa è all’Aquilone. Da un anno quel centro commerciale è diventato la nuova piazza della città. Il luogo degli incontri dove, mi dicono, i giovani si dividono gli spazi, come si faceva con le colonne dei portici. Ma nella notte qualunque di un giorno qualunque anche L’Aquilone è nel silenzio. Si rianimerà, come sempre, nel fine settimana.
E’ l’una: torno a Onna. Fa freddo. Il cielo è sereno. Nella mia casetta di legno cerco inutilmente le mie stelle.

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